Due donne, lontane nel tempo quasi duecento anni, raccontano la loro storia. Le frasi si intrecciano, rimbalzano e si completano nel passaggio di bocca in bocca, fino a sovrapporsi. E a rivelare una medesima sorte: i condizionamenti, le ingenuità delle proprie aspirazioni, il tradimento e la violenza degli uomini che non conosce confini geografici, né culturali. Anzi li annulla, quei confini, nella conquista e nella gestione del potere, in una condivisione di linguaggio e azioni brutali che annullano la distanza temporale e uniscono Occidente e Medioriente senza soluzione di continuità tra fondamentalismi cristiani e islamici. Ai danni delle due donne in età da marito, protagoniste di questo Echoes, Tillie e Samira, entrambe di Ipswich, città dell’Inghilterra, ma la prima vive in epoca vittoriana, mentre la seconda è un’emigrata siriana dei giorni nostri.

Scritto, non a caso, dall’inglese Henry Naylor con sguardo critico verso il passato coloniale e le odierne derive xenofobe del suo Paese, il testo arriva in Italia, con la regia di Massimo Di Michele e la traduzione di Enrico Luttman e Sara Polidoro all’India (fino al 29 aprile), come produzione del Teatro di Roma. Sulla scena aperta e tappezzata da macchie di tubi gialli arrotolati, le parole di Tillie e Samira – appunto – «echeggiano» in un susseguirsi di fatti che le due donne vivono dopo aver lasciato la propria casa, convinte di compiere con devozione la missione di moglie e madre.

Amante degli insetti, colta e delicata cristiana, Tillie sposa un brutale tenente della Compagnia delle Indie e finisce in una Kabul affamata dall’avidità colonialista. Non meno ingannata, Samira, studentessa musulmana e commessa in una libreria, arriva a Raqqa trasformata dal niqab in un fantasma nero, pronta a sposare un feroce poligamo e diventare una casalinga del Califfato.

Le voci e i corpi di Tillie (Federica Rosellini) e Samira (Francesca Ciocchetti) tessono una trama di sottomissione e asservimento, in un disegno che non appartiene loro, ridotte come sono a mero strumento di procreazione. Prima il disincanto e poi l’orrore ne scuotono i corpi che si stringono l’un l’altro e si mescolano a quel groviglio di tubi gialli piazzati al centro della scena da Sara Patriarca. Brave le due attrici a mantenere il ritmo dello spettacolo che le costringe a ripetere sequenze gestuali da marionetta, le quali se all’inizio della messinscena sono funzionali a rafforzare un climax astratto e straniante, nell’iterazione lungo i 70 minuti di spettacolo rischiano di produrre un effetto diluente nella ribellione delle due donne.