Un passo avanti e due indietro. Così si potrebbe dire dell’attività del governo e delle istituzioni in materia di innovazione. Una nota positiva è stata l’introduzione del principio sotteso alla vexata quaestio della cosiddetta «Google tax». Vale a dire che i ricchi devono pur pagare adeguatamente le tasse, per contribuire fattivamente all’età digitale. Purtroppo, però, una giusta intuizione è stata avvolta in un abito formale assai opinabile, che rischia di buttare via acqua sporca, bambino e tutto il resto.

Il tema è in corso d’opera a livello europeo e un raccordo comunitario sarebbe stato utile, anche in vista dell’agognata presidenza italiana dell’Unione. Attenzione, però. Bando ai fariseismi di commenti curiosi e tardivi. Ora si infoltisce, infatti, il coro dei no agli emendamenti proposti (e approvati dalla commissione bilancio della Camera) alla legge sulla stabilità. Legittimo, ci mancherebbe. Peccato che quei testi sono noti da diverse settimane e un dorato silenzio li aveva finora accompagnati. Non della rete, già perplessa da tempo; non delle cronache da Montecitorio, dove nel racconto qualche scampolo filtrava. Ma certo nella grancassa mediatica solo adesso il capitolo della tassazione italiana degli «over the top» è rimbalzato vorticosamente. Ne ha parlato anche il neo segretario del partito democratico nella relazione introduttiva dell’assemblea nazionale di Milano, ma ha collegato la critica allo sconforto per l’arretratezza in materia, come è il caso increscioso del regolamento varato dall’Autorità per le comunicazioni sul copyright on line. Sul punto va segnalata la strana determinazione dell’Agcom, che tuttora non ha affrontato adeguatamente il delicato tasto del mercato pubblicitario, mentre ha usato le maniere forti sul tessuto connettivo della rete.

Il lavoro intellettuale si tutela sul serio aggiornando le culture giuridiche, ferme all’era analogica: non con inutili e rischiose grida manzoniane. Speriamo davvero che il tempo porti consiglio e che l’esecuzione del regolamento attenda doverosamente il varo di una legge del parlamento. Altro buco nero è l’entrata in scena nel provvedimento chiamato «destino Italia» del pagamento delle news tratte dai quotidiani e veicolate in rete. Qui siamo al grottesco e all’eterogenesi dei fini. Se è vero che il settore ha perso circa un milione di copie nell’anno passato, si pensa di recuperare dichiarando guerra ai lettori del futuro, che oggi preferiscono Internet? Non sarebbe di gran lunga preferibile aiutare la crescita di un consumo cross-mediale? Et et, non aut aut. Con simile norma gli editori otterrebbero una vittoria di Pirro e la certa disaffezione di un enorme pubblico potenziale. Tra l’altro, è persino imbarazzante sentire gli inutili sermoni sull’Agenda digitale, sull’urgenza di cambiare il modello e il paradigma produttivi, per poi vedere le cadute pratiche. Da MediaEvo. È in corso un vasto e non indolore ricambio generazionale. Che senso ha fare del male proprio ai nativi digitali? E beato il mondo che non ha bisogno di eroi, per evitare scivolate gravi e insieme ridicole. Si cancelli il divieto di usare gli articoli on line. E si ri-formuli la «Google tax» affinché non vi siano dubbi sul fatto che non è e non deve diventare una tassa sul web. Ha senso se è un prelievo sui gruppi sovranazionali, a favore dei comparti più deboli e meno legati al mercato del villaggio globale.

Ps. In questo articolo ci sono delle citazioni. In base alle ultime trovate del governo si deve pagare qualche royalty? Forse ai discendenti di Lenin? (Un passo avanti e due indietro…)