Per chi ancora non conosce Elmore Leonard, classe 1928, scomparso nell’agosto dell’anno scorso, Punch al rum (Einaudi, Stile libero big, pp. 328, euro 18.00) è un perfetto punto di partenza. Scritto nel 1992, riassume per intero l’universo dell’ultimo grande caposcuola della crime fiction americana. Una trama complicata e veloce, che ruota intorno a un cospicuo mucchio di dollari, a parte il fatto che per i protagonisti di Leonard i soldi non sono mai il fine ma sempre il mezzo per inseguire altri e meno venali orizzonti. La sua è una galleria di personaggi che restituisce il catalogo completo, dipinto a tinte forti però non surreali, dell’underworld americano. Al centro della storia Jackie Burke, hostess ultraquarantenne che arrotonda il magro salario contrabbandando soldi e che, come tutti i personaggi femminili di Leonard (di solito i migliori, sempre i più coraggiosi), porta le cicatrici di una vita difficile senza essersi per questo persa d’animo.

La maggior parte dei romanzi di Leonard che Einaudi sta pubblicando o ripubblicando da qualche anno, con l’obiettivo di offrirli tutti e quarantacinque, era introvabile da anni, e a volte non era mai arrivata nelle librerie italiane. Punch al rum è in realtà uno dei titoli meno rari, era stato pubblicato nel 2004 da Marco Tropea come Jackie Brown, ed è uno dei più noti grazie al film che ne aveva tratto nel 1997 Quentin Tarantino, riprendendo la trama con massima fedeltà tranne che nel finale.

La ripubblicazione di questo come di tutti gli altri titoli di Leonard, inclusi quelli tradotti in epoche non giurassiche, era comunque opportuna, anzi necessaria. Anche chi ha dato solo una sbirciatina alla crime fiction, e magari non ha mai letto una riga di Leonard, sa che nessun autore, né di genere né mainstream, è mai stato così attento ai dialoghi, cancellando qualsiasi riga sapesse di «carta stampata». «Se un dialogo sembra libresco, lo straccio e lo riscrivo», spiegava lui stesso nel saggio sulla scrittura del 2007 Elmore Leonard’s Ten Rules of Writing. Tradurre i suoi romanzi con correttezza e però senza misurarsi con il compito tutt’altro che facile di restituire l’immediatezza del suo «parlato» significa cancellare metà del loro valore, forse anche qualcosa in più.

Questa è in tutta evidenza la sfida, sin qui vinta, delle nuove traduzioni Einaudi. Lo dichiarava uno dei principali autori che sfacchinano per ridare ai personaggi di Leonard la loro lingua anche in italiano, Wu Ming 1, commentando il suo lavoro sul primo libro di Leonard edito da Stile libero nel 2003, Tishomingo Blues: «Ho cercato di sentire il broken italian di tutti i giorni salire dalla strada. La lingua non vive nei salotti, non è un cane da grembo, è un cane randagio e rognoso». Ci è riuscito lui e ci sono riusciti gli altri traduttori che hanno sin qui curato le versioni Einaudi, Luca Conti e Stefano Massaron,che firma Punch al rum.

Se Leonard sudava per far parlare i suoi personaggi come parla la gente della strada che popola i suoi libri, non era per vezzo stilistico. Sapeva che il personaggio non è soltanto azione, meno che mai dissertazione prolissa: è il modo in cui si esprime, lo stile che indossa, la musica che sceglie per colonna sonora della vita. Per questo, quando Tarantino decise di riportare sullo schermo uno di quei film blaxploitation che impazzavano nei ’70 e dai quali aveva imparato a usare la macchina da presa, scelse un romanzo del bianco Elmore, nato a New Orleans ma cresciuto a Detroit, Motor City, una delle città più nere d’America.

Nessun autore, tranne Chester Himes, è stato più in sintonia di Leonard con l’essenza della blaxploitation, per il modo di affrontare i personaggi, ma anche per l’iperbolicità delle trame e soprattutto per la capacità di infiltrare con massicce dosi di comicità grottesca le sue storie pur farcite di cadaveri. In molti suoi romanzi sono i gangster neri quelli che colpiscono più a fondo e più direttamente, come Ordell «Whitebread» Robbie in Punch al Rhum, un modello di eleganza in schietto stile pappone del ghetto (era già comparso in un precedente romanzo, The Switch, del ’78, uscito anche in Italia nello stesso anno per Il Giallo Mondadori col titolo Scambio a sorpresa e diventato l’anno scorso un film di notevole successo negli Usa, Life of Crime). Anche se nel film di Tarantino non ha trovato posto, un altro personaggio minore ma esemplare di Punch al Rhum vale da sola tutte le imitazioni di Superfly messe insieme: nera ultrasessantenne e supersexy, che seduce senza sforzo un maschio via l’altro imitando alla perfezione le grandi star della Motown: Diana Ross, Martha Reeves, Gladys Knight…

Elmore Leonard è in realtà molto più black che noir. I suoi protagonisti sono spesso solitari, ma hanno poco a che spartire con la malinconia romantica chandleriana, ripresa fino all’estenuazione da decine di epigoni e coronata dal manierismo vendutissimo ma noiosetto di Michael Connelly. Casomai mantengono l’impronta dei cowboys protagonisti dei racconti e dei romanzi western con cui l’autore aveva esordito nei ’50 (per ora Einaudi ha tradotto solo, nel 2008, l’antologia Tutti i racconti western, che include il fulminante e famosissimo capolavoro Quel treno per Yuma). Fanno il loro lavoro ai margini della legge, da una parte o dall’altra di quel confine, e spesso sono tentati di attraversarlo. Sono ufficiali giudiziari, garanti di cauzione come il Max Cherry di Punch rum, rapinatori di serie b, strozzini come il protagonista di Get Shorty (in italiano La scorciatoia, non ancora ripubblicato da Einaudi), forse il miglior libro su Hollywood dai tempi lontani del capolavoro incompiuto di Scott Fitzgerald Last Tycoon.

La fauna umana che affolla le storie dello scrittore che Martin Amis ha definito «il Dickens di Detroit» è composta per lo più da pesci piccoli, anche se spietati e sanguinari, soldati semplici di mafia, gangster minori del ghetto che se la tirano da padrini, trafficanti di armi o droga che campano di risulta ai margini del giro grosso. L’ordinary people dell’underworld. La gente comune dell’universo criminale. Però non sono mai desolati o deprimenti come gli sfigati cronici di Jim Thompson o David Goodis. Mantengono sempre la speranza di trovare un mucchio di soldi, un amore, qualche nuovo orizzonte da inseguire. Qualche volta ci riescono.

Quando, alla fine dei ’60, decise di passare dal western, dove aveva firmato capolavori come Hombre, alla crime fiction, Leonard mise subito da parte tutti i canoni usuali del noir, e forse anche per questo il guado non gli fu affatto facile. Narra la leggenda che il primo romanzo senza cowboys, Il grande salto, fu rifiutato da ottanta editori. Oggi l’estrema originalità di Leonard si coglie solo in parte perché nei decenni successivi sono stati in molti a percorrere il sentiero che ha aperto quasi da solo.

Senza il suo stile non ci sarebbero i surfisti armati di Don Winslow, il pulp a sfondo razziale di John Lansdale, le cronache pop del ghetto di George Pelecanos. Ma la lezione non è stata appresa solo dagli scrittori. Dai suoi romanzi e dai suoi racconti sono stati tratti innumerevoli film e una serie tv di gran successo, Justified. Però il film più «leonardiano» che si possa immaginare non è tratto da un suo romanzo. È American Hustle, che ha spopolato anche in Italia l’anno scorso. Forse gli autori neppure si sono resi conto di quanto dovessero al «Dickens di Detroit». Capita, quando si è un caposcuola.