Questa intervista (fu l’apertura de “il manifesto” dell’11 dicembre) venne realizzata nella sera del 10 dicembre del 1998, grazie a un militante della sezione internazionale del Pkk, arrivato in Italia – con autorizzazione del governo italiano – proprio in occasione della presenza di Ocalan. Entrammo nel nascondiglio ancora segreto, una villetta nel quartiere Infernetto di Roma presidiata, sia dentro che fuori, da decine di uomini e donne dei nostri Servizi segreti armati fino ai denti; ricordo che dentro, salendo una scala a chiocciola che portava alle stanze superiori dove ci aspettava il leader curdo, era piazzato il treppiedi di una grossa mitragliatrice antiaerea.

Pensai in cuor mio: “Ma allora è possibile difendere il protagonista alternativo di una crisi internazionale e non vederne tanti, come i rappresentanti palestinesi, assassinati proprio a Roma…”. Alla fine, come si può leggere, Ocalan ringrazia dell’ospitalità politica l’allora Presidente del Consiglio Massimo D’Alema…Poi sappiamo come andò a finire.

La riproponiamo convinti che serva a spiegare il valore storico dell’iniziativa italiana di Ocalan: nell’intervista annuncia infatti, insieme alle sue dimissioni dalla presidenza del Pkk per esigenze di “riorganizzazione del partito”, anche il suo piano di pace rivolgendosi direttamente alla Turchia che deve “mettere fine al genocidio dei curdi” – queste furono le sue parole -, e propone la rinuncia all’indipendenza e la richiesta di uno Stato confederale per la piena autonomia del suo popolo. (T.D.F.)

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Data: 11/12/1998

Che Abdullah “Apo” Ocalan, dalle valli libanesi e siriane approdasse tra le nebbie del litorale romano, come assediato in una villetta dell’Infernetto, questo proprio non lo immaginava nessuno. Forse nemmeno lui. E comunque non i servizi turchi e quelli collegati della Nato, stravolti dalla decisione di Ocalan di portare la questione kurda nel cuore d’Europa.

Circondato da una protezione militare – ma tra giorni lascerà anche quella residenza ormai troppo famosa -, lo incontriamo che, con un sorriso accattivante ed aperto, snocciola ininterrottamente un rosario orientale.

Cosa chiede in queste ore che l’Europa si avvia a formalizzare una decisione, al governo italiano?

Che l’Italia s’impegni a portare la questione del Kurdistan turco in Europa. Sarebbe un fatto storico. Ripeto che il governo non era preparato al nostro arrivo, era troppo nuovo e sicuramente anche noi siamo stati precipitosi. Ma tutto questo non deve impedire di prendere le decisioni importanti per una soluzione politica della questione kurda che, ormai, è diventata una questione europea. Quello che manca in sede europea è la messa in pratica di una volontà politica già espressa. Il governo italiano in queste ore deve premere perché tutta l’Europa si assuma le sue responsabilità.

Lei, ai fini di un processo internazionale che la vedrebbe sul banco degli imputati, ritiene migliore la sede italiana o quella “neutrale” di un’altra sede istituzionale europea?

Voglio sottolineare intanto che ancora non è chiaro se ci sarà o no un processo internazionale. Se questa sarà la soluzione, l’Italia è il posto giusto. E’ chiaro comunque che noi pensiamo ad un processo internazionale come momento di verità. Da 75 anni i crimini della Turchia sono noti e vanno con rigore giudicati, processati. Quattro popoli della regione hanno subìto un genocidio. Il fatto che oggi mi definiscano “il terrorista più pericoloso del mondo”, vuole semplicemente nascondere il fatto che il genocidio continua. Il governo turco vuole il processo contro di me per continuare a nascondere, noi lo vogliamo perché emerga la verità. Per questo vogliamo un processo che affronti i crimini di guerra contro un popolo, degno del diritto dell’antica Roma.

State preparando in questi giorni il congresso del Pkk. Sarà il congresso della svolta che affronterà la rinuncia alla lotta armata e la rivendicazione dell’autonomia politica del Kurdistan turco invece dell’antica scelta nazionalista-separatista?

Domani sera (stasera, ndr) farò alla Med-tv, la televisione kurda con sede europea, dichiarazioni più radicali e rischiose, temo addirittura di non essere capito o frainteso. Infatti il cambiamento a cui penso non è legato, per il momento, al nodo della scelta armata. Mi pongo i problemi di un nuovo rapporto tra me e il movimento del Pkk: è all’ordine del giorno il problema di una ristrutturazione del Pkk. Per una nuova linea e un nuovo ruolo del partito abbiamo bisogno di un salto, di una svolta senza precedenti: per questo lascerò la presidenza del Pkk. Ma per ricominciare di nuovo. Non vorrei essere frainteso. Decido di lasciare la presidenza del partito nel momento in cui il Pkk è più unito che mai. Ma per ogni svolta ci vuole un nuovo inizio. Voglio dividere il peso che porto sulle spalle con il comitato centrale, con i quadri tutti, con il popolo kurdo, perché tutti sono maturi per portarlo.

Penso di allontanarmi dal Pkk lasciando ai nostri quadri dirigenti il carico di occuparsi della continuazione della lotta sul campo. Anche per svelare molti dei complotti internazionali contro di noi. Per giocare bene ora il mio personale ruolo internazionale, devo essere anch’io libero dei tanti pesi e responsabilità. Così contribuirò di più ad una soluzione politica della nostra crisi. Internamente alla nostra organizzazione sarà un rinnovamento anti-burocratico, volto a legittimare maggiormente i quadri più in contatto con la società e la lotta. Va abolita l’idea del socialismo reale: prima il partito, poi lo stato e poi l’essere umano. Dunque io metto tutto me stesso in gioco in questo momento. Mi aspetto che anche i nostri nemici, il regime turco, si assumano fino in fondo le loro responsabilità per una soluzione politica. Quanto alla lotta armata, la svolta non ci sarà se non c’è dialogo e un processo reale di pacificazione.

Lei ha detto che considera il movimento kurdo un “pilastro della democrazia turca” e spesso ha ricordato come esempio negativo il disastro della Jugoslavia. Non crede che ormai il nazionalismo etnico sia un grande limite ai processi di libertà e democrazia dei popoli?

Sì, il mio è un approccio diverso alla questione nazionale. La realtà della guerra in Jugoslavia ha messo in luce tutti i crimini del nazionalismo. Ma non dimentico certo le responsabilità dell’ex Urss con il suo sciovinismo da grande nazione verso i piccoli popoli: è stato uno dei fattori che ha portato al crollo del socialismo reale. Una soluzione basata sul nazionalismo non è una soluzione, è il suo esatto contrario. Il nazionalismo non è la nostra via, né politicamente né ideologicamente. E soprattutto in Medio Oriente questa soluzione non è degna della sua storia: grandi religioni, lingue, costumi, culture, popoli, strutturalmente multietnici.

Io penso perciò ad un largo processo di democratizzazione dal basso che permetta a tutte queste diversità di svilupparsi insieme: è la soluzione federativa, a patto che non sia una beffa grottesca. Il nazionalismo è il rebus della nostra epoca: allontana i popoli molto di più di quanto è possibile e legittimo avvicinarli. Un’idea socialista, mentre inizia un nuovo millennio, non può svilupparsi senza combattere il nazionalismo che è un portato della storia del capitalismo. Voglio aggiungere però che c’è un pericolo eguale e contrario: l’attuale ideologia cosmopolita del mercato e la fase di globalizzazione dei nuovi imperi politico-economici. Nell’ex Jugoslavia i due poli contrapposti si sono uniti e sostenuti a vicenda.

In questi giorni lei, qui all’Infernetto, è stato oggetto di una indagine dei giudici francesi che ha definito “persecutoria”. Cosa c’è dietro l’indagine secondo lei?

Sì, mercoledì mattina hanno fatto una perquisizione “strana”: non esito a definirla dispettosa. Si è detto che il governo italiano non ne sapeva nulla, né si sa ancora chi l’ha ordinata. Da come è andata non credo che il giudice volesse collegare la perquisizione con il processo avviato in Francia. Mi è sembrato che mi volessero “cogliere sul fatto”. Per questo ho protestato. Perché dietro ci intravvedo l’ombra di sviluppi futuri.

Lei domani (oggi, ndr) sarà interrogato dai giudici romani anche per le sue dichiarazioni sull’attentato al papa?

Voglio richiamare l’attenzione sul fatto che il “manovale” Ali Agca non agiva da solo, conoscendo la giunta militare golpista turca dell’epoca e conoscendo il ruolo degli Stati uniti di Reagan e anche il sistema operativo dell’ex Urss. Sono tutti elementi che hanno coinciso portando a quell’attentato. In particolare in Turchia proprio la Gladio, la mafia e i regimi politici, la “triade” che ci combatte. Insomma, la storia continua. E non è un caso che sia accaduto in Italia. Anche l’assassinio del leader della socialdemocrazia internazionale, Olaf Palme è il “risultato” del contesto politico dell’epoca. Qualche giorno fa Clinton, per bocca della segretaria di stato Albright, si è scusato perché gli Usa hanno aiutato i golpisti delle giunte militari in America latina. Un fatto che giustifica quello che sto dicendo.

Dopo l’80 una nutrita squadra dell’area politica Gladio-mafia-regime è stata addestrata negli Stati uniti per essere poi utilizzata in Europa (nel giro del riciclaggio, della droga e contro di noi e gli armeni) sia per l’attentato al papa che contro Olaf Palme. Se poi si studia di più la strategia della Gladio in Italia, si può capire meglio quello che è accaduto. L’organizzazione della Gladio nella Nato è l’elemento chiave di tutto. L’organizzazione terrorista di destra dei “Lupi grigi” è l’esecutrice di Gladio. E’ in Turchia che Gladio ha avuto un ruolo decisivo. Se vediamo oggi la “guerra sporca” in Kurdistan condotta dal Dipartimento della guerra speciale, vediamo che si tratta di una guerra alla Gladio: i ricorsi al sabotaggio in Italia e in Europa sono stati eccezioni, in Kurdistan è una pratica generalizzata contro tutto un popolo. Una guerra più sporca di quella del Vietnam, senza regole e contro tutti i civili. E la Gladio della Nato in Turchia non è marginale, è al potere. Per schematizzare: prima dell’80 Gladio era internazionale, dopo l’80 si è nazionalizzata, dopo il ’90 si è privatizzata in Kurdistan.

Come giudica il fatto che il governo turco di Yilmaz caduto per lo strapotere della mafia, e quello nuovo di Ecevit, stia comprando pagine dei giornali italiani per accusarvi di essere finanziati dai proventi della droga?

Stanno cercando di coinvolgere i mass media e la politica interna italiana. Proprio i grandi industriali e commercianti turchi. Penso che la politica italiana (non parlo solo della sinistra, penso al centro e alla destra) è comunque ad un livello tale che non può accettare ricatti. Ma questa campagna di menzogne deve finire. Per finire voglio aggiungere che il mio caso non va strumentalizzato in chiave di politica interna: riguarda tutta la democrazia italiana e quella nuova europea. Gli approcci di parte non sono adeguati. Visto l’operato del governo e il dibattito nel Parlamento italiano, voglio sottolineare il comportamento del presidente del consiglio Massimo D’Alema, qualunque sia alla fine il risultato di questa vicenda. La sua è una politica corretta che merita tutto il mio rispetto.