Matteo Renzi avrà ciò che voleva: il voto di fiducia nello stesso giorno del minivertice europeo di Milano. Non sarà un’impresa difficile. La minoranza del Pd si comporterà come da copione: proteste rumorose, ma sarà già tanto se uno sparuto drappello non parteciperà al voto. Anche l’opposizione per modo di dire, quella azzurra, è pronta a fare la sua parte. Discorsi roventi in aula: persino Maurizio Gasparri finge di indignarsi per l’idea di mettere la fiducia su una delega, oltretutto in bianco. Forza Italia non voterà per il Jobs Act, e nessuno e sarà più felice di Renzi. Non è un ostacolo nella marcia del Nazareno ma la prova che funziona a dovere. Se poi, per caso stranissimo, fossero proprio necessari i voti a disposizione di Arcore, il socio ha già garantito che nulla osta a disporre di alcune assenze strategiche per abbassare il quorum.

Renzi otterrà la sua fiducia, e punta con molte e sode speranze di successo a quota 161, maggioranza assoluta. Si presenterà così a Milano sbandierando l’istantanea di un paese infine disciplinato, che se ne frega delle minoranze interne al Pd così come dei borbottii del sindacato. L’emendamento arrivato ieri in tarda serata a palazzo Madama, quello su cui verrà posta la fiducia e che avrebbe dovuto limare e addolcire il testo originario miscelandolo con i risultati della direzione Pd della settimana scorsa, concede pochissimo, quasi nulla.
Il reintegro dei licenziati per motivi disciplinari o per discriminazione non sarà neppure nominato. S’impegnerà a inserirlo nei decreti attuativi il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Parola sua e si sa che Poletti è uomo d’onore, un po’ come Matteo Renzi. Ma cosa significherà davvero lo spettrale passaggio sul reintegro, questo non si sa. «Bisogna chiarire la fattispecie e attendere il decreto legislativo», ha tagliato cortissimo ieri mattina il capo del governo in conferenza stampa. Significa che una volta incassata la fiducia come gestire la faccenda sarà nella totale discrezione del governo.

La sola vera concessione alla minoranza sarà chiarire che eventuali demansionamenti non possono comportare abbassamenti di stipendio. Non è poca roba: è niente in assoluto. Il demansionamento, in effetti, non colpisce tanto le retribuzioni quanto il ruolo lavorativo. A parità di stipendio, qualunque datore di lavoro potrà punire dipendenti scomodi relegandoli in lavori al di sotto delle loro competenze. Giusto per la cronaca, è una logica molto vicina a quella seguita negli anni ’50 dalla Fiat di Valletta per creare i reparti confino nei quali rinchiudere e rendere inoffensivi gli operai più combattivi. Evviva.

Poi ci sarà una limitazione degli ambiti in cui è possibile ricorrere al metodo dei voucher e la promessa che dal 2015 saranno aumentati i fondi per gli ammortizzatori sociali. Senza ulteriori specifiche perché quella un po’ è materia di legge di stabilità e un po’ spetta alla decisione di un governo ogni giorno di più svincolato da qualsiasi controllo. E’ su questa base che oggi il senato concederà una assurda fiducia in bianco a una delega ancora più in bianco. La democrazia parlamentare nell’epoca di don Matteo.

Matteo Renzi arriva alla prova di oggi senza alcuna suspence: quando ieri mattina ha detto di «non temere alcuna imboscata in aula» era per una volta sincero. Qualche problema era sorto non sull’approvazione ma sui tempi della stessa. In mattinata a sorpresa per quattro volte consecutive era mancato in aula il numero legale, la discussione generale era così slittata alla seduta pomeridiana. Si erano sommati diversi dissensi, e Forza Italia aveva dato il colpo decisivo facendo uscire i suoi parlamentari. In fondo a Silvio Berlusconi non dispiace ricordare all’alleato che del suo sostegno ha pur sempre bisogno. Anche la fiducia è così slittata, ma solo di alcune ore.

Poco male: l’importante è arrivare al vertice con la vittoria in pugno. E la vittoria, in questo caso, non è solo lo scalpo quasi inutile dell’articolo 18, ma la dimostrazione che in pochi mesi l’astro emergente ha saputo mettere in riga il suo Paese. Se basterà a calmare le ire nord-europee per il rinvio del pareggio di bilancio è impossibile dirlo oggi. Ma di certo Matteo Renzi non mancherà di calare sul tavolo la carta appena conquistata.