La donna elettrica è un film islandese uscito pochi mesi fa. Il titolo originale è Kona fer í stríð (una donna va in guerra) ed è una delle prime pellicole a varcare la terra dei ghiacci mostrando non solo gli splendidi paesaggi del nord ma anche uno dei problemi più sentiti in quella terra: il proliferare delle fonderie.

La protagonista è una cinquantenne, single, che con arco e frecce sabota i tralicci della corrente elettrica per protestare contro l’accordo tra una multinazionale cinese e il governo islandese per la costruzione di un nuovo impianto che sfrutterà l’energia geotermica e idroelettrica per la lavorazione dell’alluminio. Una storia di fantasia che riflette, però, un problema molto sentito in Islanda: lo sfruttamento dell’energia (pulita) della loro terra per fini tutt’altro che “nobili”. Sono diverse le industrie (tutte di grandi corporation straniere) che nell’isola sfruttano il geotermico e l’idroelettrico sia per la lavorazione dell’alluminio che del silicio. Opportunità economiche e occupazionali per alcune comunità ma un vero e proprio pericolo per il fragile ecosistema dell’Islanda.

Una delle fonderie più criticate si trova nell’Est del paese, a Fjarðaál, di proprietà dell’Alcoa che, per garantirsi il necessario fabbisogno energetico, ha fatto costruire una diga a Kárahnjúkar (opera realizzata anche dall’italiana Impregilo) modificando il delicato ambiente circostante, deviando fiumi e prosciugando cascate. Oggi il governo ecologista ha dichiarato che non saranno più autorizzate nuove fabbriche; il rischio, però, è ancora dietro l’angolo a partire dalla ricerca di nuove fonti energetiche proprio della Cina nel bacino artico. Il governo dell’isola però rivendica, con orgoglio, il suo cronoprogramma per rispettare l’accordo di Parigi sul clima non solo perché l’energia da fonti rinnovabili, già oggi, rappresenta il 70% di quella utilizzata, ma perché è impegnato a ridurre il residuo di quella fossile utilizzata nei mezzi di trasporto a partire dalla riconversione delle auto a benzina in elettriche. Inoltre, visto che l’Islanda è povera di foreste (a causa di una politica di disboscamento attuata dai colonizzatori danesi), l’impegno è impiantare nuovi alberi e sfruttare le “terre umide”.

L’attenzione all’ambiente ha interessato anche ciò che circonda l’isola: il mare. Dal 1984 il governo islandese ha deciso di varare la prima legge al mondo per la sostenibilità della pesca. Ha abolito quella a strascico (vero e proprio devastatore della fauna ittica) rimpiazzando le grandi navi commerciali con piccole imbarcazioni e mettendo al bando le reti killer sostituite dai palamiti. Questa “rivoluzione” è stata possibile attraverso incentivi alle ditte del settore con politiche sulle quote rendendo l’industria ittica competitiva su scala mondiale mantenendo, per esempio, il primato sull’esportazione del merluzzo. L’Islanda può essere definita uno dei paesi più ecologisti al mondo come hanno dimostrato anche le migliaia di giovani che, lo scorso 15 marzo, hanno invaso le strade di Reykjavik in occasione dello #SchoolStrike4Climate.