Aylan aveva tre anni e arrivava da Kobane. È morto a settembre su una spiaggia turca, indignando per qualche giorno l’Europa. Con la famiglia scappava dalla città che più di ogni altra in questi anni ha rappresentato il movimento di liberazione del popolo kurdo, la resistenza alla brutalità fascistoide dello Stato Islamico, ma anche quella al ruolo della Turchia nella cosiddetta lotta al terrore.

Ankara non si rivolge all’Isis: dopo il massacro di Suruc, a luglio, il governo turco dichiarò guerra agli islamisti, fino ad allora più che tollerati. I raid contro al-Baghdadi sono però durati pochissimo, rivelandosi subito per ciò che in realtà erano: la giustificazione per un’operazione militare contro il Pkk in Turchia e nel nord Iraq. Da fine luglio la popolazione kurda turca è oggetto di una violentissima repressione: civili uccisi, coprifuoco, missili contro le abitazioni civili.

A monte sta la volontà turca di spezzare la resistenza kurda in un periodo positivo per il movimento di liberazione guidato dal Pkk e ripreso dalle Ypg siriane: le unità di difesa kurde hanno sostituito agli occhi di Usa e Russia le opposizioni moderate e hanno ottenuto armi e raid in cambio informazioni di intelligence e cooperazione militare. Pochi giorni fa le Forze Democratiche Siriane, fronte misto di arabi, assiri, turkmeni e kurdi, hanno ripreso la diga Tishreen lungo l’Eufrate, tagliando la via di rifornimento islamista tra Aleppo e il confine turco. Per Erdogan, che teme un’avanzata kurda verso ovest, è un grave smacco. Dei rapporti tra autorità turche e movimento kurdo e delle ripercussioni sulla crisi siriana, abbiamo parlato con Murad Akincilar, sindacalista e direttore dell’Istituto di Ricerca Politica e Sociale di Diyarbakir.

Qual è il principale target delle autorità turche a sud est?
Il governo turco non fa differenza tra Pkk e Hdp di fronte all’opinione pubblica. Le autorità di Ankara sono ostaggio di un’élite politica che tenta di delegittimizzare tutta la lista di richieste kurde. Il governo è ben consapevole che la distruzione fisica della resistenza kurda non è fattibile ma tenta lo stesso di disegnare una nuova «natura kurda» fondata su priorità confessionali e collaborazione economica con i gruppi neoliberali e conservatori. Ma la sensibilità ecologica e il desiderio di autonomia della realtà kurda, così come il concetto di libertà fondato sulla centralità della donna nella società, sono in contraddizione con questa logica della ridefinizione del popolo kurdo. Per raggiungere questo obiettivo, però, l’élite politica turca cerca di costringere l’Hdp a fare un passo indietro sulle questioni cuore della causa kurda e quindi di marginalizzarle.

Come vede il futuro del Kurdistan del nord, il Kurdistan turco?
È un futuro strettamente connesso a quello futuro del Kurdistan dell’ovest, ovvero Rojava. Se le forze democratiche siriane guidate dal Pyd (Partito di Unione Democratica) riusciranno a tenere fuori l’Isis da Jarabulus [Cerablus in kurdo], la guerra nel Kurdistan del nord finirà in un contesto di giustizia e pacificazione. Se i kurdi saranno invece in qualche modo traditi dai loro alleati sul terreno, la guerra nel Kurdistan turco durerà per un tempo non facile da prevedere.

Quale ruolo ha la crisi siriana nella repressione da parte turca del movimento di liberazione kurdo?
Il popolo kurdo in Turchia paga il prezzo dell’avanzata delle forze democratiche in Rojava. Il movimento di liberazione kurdo non è stato militarmente represso fino a quando rappresentava la parte più debole nel conflitto generale. Per il momento in Turchia l’Hpg (Forze di Difesa Popolare, braccio armato del Pkk) non gioca un ruolo vitale nel conflitto a parte per il ruolo dei giovani armati nei quartieri dove l’esercito ha sostituito la polizia anti-sommossa. La guerra rischia di diventare sempre più brutale perché le forze armate regolari hanno cominciato a confrontare la gente. Se guardiamo ai dati, vediamo che il numero di civili kurdi uccisi è molto più alto del numero di vittime tra i combattenti armati. La politica nazionalista turca non ha alleati in Siria, se non le forze salafite, e questo spiega «la benigna negligenza» di cui l’Isis ha saputo approfittare fino a due mesi fa.

Il Pkk ha giocato un ruolo importante nella liberazione del Sinjar, in Iraq, e nel difendere dall’avanzata dello Stato Islamico la regione di Rojava in Siria. L’operazione militare turca contro i suoi combattenti può fermare la partecipazione del movimento di Ocalan nella lotta all’Isis?
L’offensiva militare di Ankara contro il Pkk può rallentare la lotta contro lo Stato Islamico, ma non a tempo indeterminato. Le forze armate turche non sono in grado di giocare un ruolo decisivo nel suolo iracheno. Per questo motivo l’unico alleato del governo turco in Iraq è l’amministrazione Barzani, il Kurdistan iracheno. La strategia messa in piedi dalla Turchia vuole far sollevare il governo Barzani contro il Pkk, ma questa ostilità prefabbricata non trova il consenso della maggioranza dell’opinione pubblica kurda, sia nel Kurdistan del nord che in quello del Sud [Kurdistan iracheno, ndr].

Il 2016 sarà l’anno della svolta nella battaglia anti-Isis tra Siria e Iraq?
Penso che l’avanzata delle forze democratiche siriane andrà avanti e creerà un nuovo equilibrio di potere nell’intera regione. La parte più fragile di questa avanzata è data dalla congiunzione dei ruoli giocati dagli interventi separati di Usa e Russia. Per il momento la presenza russa non costituisce una chiara rivalità militare con le forze armate statunitensi, ma le operazioni sul terreno e le rispettive priorità delle due super potenze non combaciano. Con gli attuali equilibri di poteri, con la partecipazione di tanti diversi gruppi alla lotta all’Isis e il sostegno che Mosca e Washington garantiscono loro per prevalere nel campo mediorientale, la situazione dei kurdi, dei gruppi arabi democratici, dei cristiani, degli yazidi, dei turkmeni, delle comunità sciite non potrà che migliorare. Tutti beneficeranno dalla maggiore libertà e dall’espansione dei diritti nel medio termine, ne sono certo.