L’inquadratura è frontale: in basso, nel volume dell’architettura nera – essenziale ma imponente – che intercetta il cielo azzurro e la massa delle nuvole, c’è un’apertura che sembra piccola con una figura umana ferma al confine dentro/fuori. Gabriele Basilico ha scattato questa fotografia a colori a Città di Castello, nel 1990, scegliendo come punto d’osservazione lo spazio antistante gli Ex Seccatoi del Tabacco, lì dove Alberto Burri (è lui l’uomo dai capelli candidi) già dal 1976 aveva avuto in concessione un grande capannone da utilizzare come studio, intuendone le potenzialità di immensa opera d’arte totale.
Uno sguardo lungimirante che aveva portato l’artista, con l’immancabile entusiasmo e il sostegno dell’amico Nemo Sarteanesi, a rendere il progetto della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri (con la donazione delle sue opere a Città di Castello) ancora più ambizioso dopo l’acquisto, nel 1989, degli oltre settemila metri quadrati degli Ex Seccatoi, dove tra il ’58 e il ’66 si essiccava il tabacco, odore ancora vagamente percepibile negli ambienti.

LA SOGLIA E IL SOGGETTO
Tornando alla fotografia (datata nello stesso anno dell’apertura del complesso di archeologia industriale, nato per ospitare grandi cicli come Il viaggio, Sestante, Annottarsi) nella visione di Basilico – che, a dire il vero, prevede raramente la presenza umana, piuttosto egli preferisce le sue tracce indirette, interpretando «con la fotografia il senso di ciò che ci sta davanti» – si legge anche quell’esigenza di rigore, ricerca di equilibrio e bellezza che, certamente, avvicina in una certa affinità elettiva il fotografo e il pittore. «Non voglio nascondere nulla anzi – affermava Gabriele Basilico in un’intervista del 2005 – al contrario, mi interessa quando è possibile vedere tutto. Inoltre, non bisogna dimenticare che la fotografia vede sempre di più di quello che percepiamo». In effetti, anche in quest’immagine che chiude idealmente la mostra Obiettivi su Burri – Fotografie e fotoritratti di Alberto Burri dal 1954 al 1993, curata da Bruno Corà e allestita negli ambienti degli Ex Seccatoi di Città di Castello (fino al 6 gennaio 2020), appena ristrutturati da Tiziano Sarteanesi, la soglia da cui si affaccia il soggetto è uno spunto metaforico utile per sfondare il limite temporale, sottolineando al contempo il rapporto strettissimo tra il luogo e l’artista e mostrando un Burri in parte inedito.
In questi stessi spazi immensi e silenziosi, egli era solito trascorrere giornate intere, dalla mattina alla sera con l’intervallo della pausa pranzo, proprio come un operaio: da solo, concentratissimo, con gli attrezzi in mano e curvo sull’opera che sta realizzando appare anche nel 1992, negli scatti in bianco e nero di Lionello Fabbri, interprete del Festival dei Due Mondi di Spoleto che aveva conosciuto l’artista umbro il 3 aprile 1980 durante l’incontro alla Rocca Paolina di Perugia tra Joseph Beuys e Alberto Burri. Quest’ultimo presentava Grande Ferro (oggi a Palazzo Albizzini), mentre l’artista-sciamano le sei Lavagne. Del percorso esistenziale e creativo – Alberto Burri era nato a Città di Castello nel 1915 e morì a Nizza nel 1995 – sono centinaia le testimonianze dei fotografi, professionisti o amatoriali, molti dei quali legati a lui da autentica amicizia.
La pratica artistica, il gesto, la materia stessa (sabbia, catrame, pomice, juta, vinavil, ferro, plastica, fuoco, cellotex…) sono presenti in moltissime delle immagini (prevalentemente vintage) che raccontano un Burri perfettamente consapevole della presenza dell’obiettivo fotografico, come negli scatti di Josephine Powell, chiamata da Milton Gendel a realizzare con lui il reportage di quattro pagine pubblicato sulla rivista americana Art News (dicembre 1954).
Burri è fotografato sia nello studio romano a Porta Pinciana (descritto da Gendel come un seminterrato di tre stanze illuminato dalla luce al neon) che in quello di Città di Castello, insieme alla sequenza dei diversi passaggi dell’opera Rosso I, dove è protagonista uno di quei sacchi che avevano tanto destato sconcerto, se non addirittura scandalo, nello scenario dell’arte italiana ma che, grazie anche a questo articolo che lo fece conoscere oltreoceano, riscuoteranno sempre più successo.

GLI AMICI
In Burri makes a picture, il noto critico (anche fotografo) americano sottolinea «un temperamento solitario», «indifferente alle categorizzazioni di sé e del suo lavoro»: proprio Gendel è autore di quella serie di scatti del ’62 che inquadrano un momento conviviale nell’abitazione che l’artista aveva nella zona di Grottarossa a Roma. Esigente, ma anche sorridente, il grande interprete dell’Informale, riconosciuto con Lucio Fontana come tra i massimi innovatori dell’arte del Novecento (l’incontro tra i due che avvenne nel ’66, nello studio di Fontana a Milano e fu documentato da Giuseppe Loy), è circondato dagli amici Toti Scialoja, Gabriella Drudi, Judy Montagu (che Gendel aveva sposato quell’anno) e Nathalie de Noailles Perrone.
Poggiati sulla mensola del caminetto si vedono una decina di fucili, uno accanto all’altro, e sotto una serie di obiettivi fotografici: «shoot» (sparo), del resto, in inglese si usa sia in un caso che per l’altro. In molte altre immagini torneranno puntuali questi oggetti iconici: i fucili nelle foto di Carlo Bavagnoli, Plinio De Martiis; le camice a quadri nelle foto di Ugo Mulas, Torgny Sommelius, Marvin Lazarus, Sandro Visca e le macchine fotografiche in quelle di Masami Kuni e Vittorugo Contino, autore del reportage al cretto di Gibellina il 23 maggio 1987.
Sempre Milton Gendel, parlando di Burri, ricordava nel 2012 che «quello che faceva era molto interessante, soprattutto per quell’epoca. Sul piano personale non c’era un’amicizia come, ad esempio, con Scialoja, perché Burri non era un intellettuale, era un signore di campagna che amava andare ad ammazzare gli scoiattoli». Invece, Barbara Drudi ripercorrendo l’amicizia Scialoja-Burri, soprattutto dal ’49 al ’52, afferma che «Toti è stato fra i suoi primissimi estimatori. Fu lui, nel ’55, a portare nel piccolo studio romano di Burri il famoso collezionista Emilio Jesi, suggerendogli di comprare quelle opere che all’epoca non costavano niente. Il collezionista non comprò nulla e quando uscirono dallo studio disse scherzosamente: “Ah, Scialoja… mi volevi mettere nel sacco di Burri!. Solo dieci anni dopo Jesi comprò alcune sue opere pagandole il triplo!».
Tra le altre grandi passioni di Burri c’era, come è noto, anche il calcio: era tifosissimo del Perugia (mai disturbarlo quando in tv c’era la partita) e in alcuni scatti di Giorgio Colombo, datati ’84, lo vediamo con La Gazzetta dello Sport.

TEMPO DI INCONTRI
Ancora date: 1957, New York. Stavolta a fermare il momento è Tony Vaccaro che, oltre alla sequenza in cui l’artista punta il dito verso il fotografo e poi continua a manovrare la materia come uno chef, lo ritrae con la cinepresa mentre riprende lo skyline di Manhattan. È sempre il tempo a dare il ritmo al percorso espositivo, come afferma Rita Olivieri nel suo testo in catalogo (che annovera anche i contributi critici di Bruno Corà, Aldo Iori, Chiara Sarteanesi e le schede biografiche dei fotografi redatte da Greta Boninsegni): «il tempo della vita dell’artista attraversato dallo sguardo degli autori, il tempo di ogni scatto, talora istantaneo, talora meditato, il tempo degli incontri dei singoli fotografi e infine il tempo della fotografia nel suo evolversi storico, dall’inizio fino alla conclusione». Nell’immagine di Gianfranco Gorgoni, Burri, a Palazzo Albizzini nel ’93, Burri appare provato dalla malattia respiratoria ma sempre alimentato da un’inossidabile forza interiore: alle sue spalle s’intravedono i Cretti neri avvolti da quella loro tensione drammatica.
Un nucleo di fotografie è dedicato, in particolare, al rapporto tra l’artista e Aurelio Amendola, autore di immagini iconiche come Combustione nella casa-studio di Casenove di Morra (1976) e, tra gli altri, del suo ritratto con la moglie Minsa Craig ai Cantieri Navali alla Giudecca, Venezia (1983). «Il Burri privato era meraviglioso. Tutti lo vedevano burbero, anche perché era timido, ma quando eravamo soli era gioioso – ricorda il fotografo nell’intervista pubblicata in Alberto Burri. Opera al nero. Cellotex 1972-1992 – Sapeva di essere anche affascinante. C’è una foto, in cui ha i capelli un po’ scompigliati. Ero stato io a dirgli: “Oh, Burri, diamoci una mossa!”. “Non sono mica un vip!”, mi aveva risposto».