Le «figure di Lichtenberg» sono impronte visibili, prodotte su qualche materiale attraverso una irradiazione elettrica. A chi non si intende di fenomeni fisici, sembrano alberi molto ramificati, fatti solo di luce. Gli ingegneri le usano per valutare l’affidabilità dei componenti di un impianto destinato a essere attraversato da scariche di elettricità ad altissimo voltaggio: il materiale che riceve l’impulso restituisce in quei rami luminosi il segno di un’attivazione, di una risposta. Più o meno metaforicamente, ciò che accade in versi come questi: «l’attivazione dello spazio bianco sulla pagina // riflette la paura dell’industrializzazione dei mezzi di stampa. / Avere paura dell’attivazione dello spazio bianco sulla pagina // è avere paura della poesia».

Una strana regolarità
A concepisce la pagina bianca come materia resistente, e la poesia come irradiazione elettrica che la scuote, è Ben Lerner, poeta, narratore e saggista il cui esordio in versi (pubblicato nel 2004 da Copper Canyon) esce ora in italiano titolato, appunto, Le figure di Lichtenberg (edizioni Tlon, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, con un’introduzione di Francesco Pacifico, pp. 126, € 12,90).
Tutto ciò che scrive Ben Lerner sembra avere l’aspetto, complesso e insieme sfuggente, di quella ramificazione luminosa, visibile per un istante e ricostruibile solo come traccia. Lerner è anche un grande lettore e, in quanto tale, uno storyteller del proprio rapporto con la poesia: ne è testimonianza il brillante libretto Odiare la poesia, tradotto quest’anno da Martina Testa per Sellerio. Presi insieme, il libro di versi e il breve saggio svelano un poeta che conosce bene il proprio tempo (di cui «l’industrializzazione dei mezzi di stampa» può funzionare da parte per il tutto), e sa bene quanto possano suonare sgonfie, sbriciolate e inconsistenti, in un tempo come questo, parole come tradizione, memoria, autenticità; e – per l’appunto – poesia.

Leggendo Le figure di Lichtenberg si percorrono pagine ben ritmate, che rivelano una strana sensazione di regolarità. Come ha notato Giuseppe Carrara, recensendo il libro su «Le parole e le cose» (www.leparoleelecose.it), l’impressione viene dal fatto che ciascuno dei testi somiglia a un sonetto, senza che nessuno lo diventi però compiutamente.
I blocchi di quattordici versi sono infatti ripartiti in modo ogni volta variabile: come se parlassero da luoghi molto lontani, magari con risonanze formali persino shakespeariane, che sembrano però svuotate, sventrate da un atto violento, come divorate. A un orecchio italiano possono fare l’effetto di una Vita nova alla rovescia: qualcuno racconta in sonetti sbilenchi e smangiati, dilatati e stravolti, come si è formato il suo edificio (il suo «catasto», direbbe Gadda) di memoria; introduce così il lettore alla parete più ripida del suo codice emotivo e relazionale; ma nel farlo demolisce la consistenza di ognuna delle parole che lo compongono, alludendo infine a un «libro della memoria» ancora leggibile. Ma un istante prima di riaprirlo scrive: «che il dimenticare abbia inizio».

Per Lerner scrivere significa (come dirà in Odiare la poesia, rileggendo Emily Dickinson) creare sulla pagina bianca una possibilità per l’autentico. Da questa prospettiva, Le figure di Lichtenberg diventano una sorta di libro di grammatica del poetico, scritto con l’intenzione di scuotere e riformulare un linguaggio fatto ormai di stanze vuote, di sacche morte.

Il primo bersaglio delle Figure è naturalmente il discorso accademico sulla poesia, stanato dal proprio angolo e costretto a girare su se stesso, denudato e pateticamente goffo. Ma anche i grandi schemi antropologici – la celebrazione della morte, e persino l’amore – compaiono come disseccati, internamente rosi dal vuoto delle parole con le quali tendono ancora a trafficare. Difficile, nella poesia di Lerner, citare singoli versi presi fuori contesto. Si intravede quasi ovunque una funzione pragmatica dell’avanguardia, rimasta ancora attiva: «se espongo la candela del motore, è scultura», scrive Lerner, probabilmente con l’occhio al vecchio Duchamp, che mostrando ruote di bicicletta, scolabottiglie e orinatoi aveva fatto scoppiare intorno al pubblico delle sue opere una bolla inconsistente di ritualità borghese.

Ma sul bianco della pagina c’è anche l’impronta di una storia. Un man-child, un uomo-bambino, affiora con il suo carico di ricordi violenti, perdite affettive e disillusioni. A lui Lerner affida la «messa alla prova del potere del significante», come la chiamerebbe Lacan. Lo accompagna uno strano antagonista con un nome da pugile, Orlando Duran, che affiora più volte in mezzo ai traumi dell’adolescenza, prima di imboccare il corridoio dell’oblio. Esempi, questi, delle tante figure di linguaggio che agiscono nella poesia di Lerner come parti del discorso, come tracce disseminate tra le cose, i ricordi, gli oggetti, le fratture storiche.

L’impegno della tecnica
Memore dei suoi antecedenti tardonovecenteschi – specie John Ashbery, ma anche Robert Duncan – è come se Lerner rovesciasse il linguaggio, lo spargesse a terra, in contatto con materie ruvide e sostanze vischiose, costringendolo a rimettersi in sesto, a ricombinarsi da sé. Da questo comporsi della storia, tutta la sua tecnica è pienamente investita: molte poesie iniziano, come le gloriose odi di Whitman, con sonore anafore; la loro scansione sbatte provocatoriamente sulla ripetizione allitterativa; il loro lessico accosta citazioni pop a preziosismi gergali e a perifrasi irresistibilmente fuori luogo, come questa, degna dell’Uomo senza qualità: «mando alla mia professoressa trenta dollari di infiorescenze racemose composite fusiformi / dopo che le hanno sparato all’unico figlio, uccidendolo». Così il man-child si apre una strada in ciò che ha sognato, in ciò in cui si è immerso, e in ciò che ha dimenticato. «L’autore ringrazia il mondo oggettivo per il suo contributo», prima di ridare una chance all’essere poeta, al sapere di esserlo.