Barack Obama ha prorogato per un altro anno le sanzioni contro il Venezuela. In una lettera ai presidenti di Camera e Senato, Obama ha sostenuto che dev’essere mantenuta l’emergenza nazionale» perché «la situazione non è migliorata, continua l’erosione dei diritti umani, continuano le persecuzioni politiche agli oppositori, alla libertà di stampa, continua l’uso della violenza e le violazioni ai diritti umani in risposta alle proteste antigovernative». L’8 marzo del 2015, sfiorando il grottesco, Obama aveva definito il governo di Caracas «una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti», provocando manifestazioni di sostegno a Maduro e la protesta di tutti i paesi dell’America latina.

Ma neanche i 14 milioni di firme raccolte contro il decreto hanno convinto il presidente Usa a desistere. Men che meno ora che le destre sono all’attacco in tutta l’America latina e in Venezuela, grazie anche ai fiumi di denaro che ogni anno Washington destina alle opposizioni «per la difesa dei diritti umani» hanno avuto la maggioranza in parlamento. Una maggioranza che però deve confrontarsi con il particolare equilibrio fra 5 poteri sancito dalla costituzione bolivariana del Venezuela: una repubblica presidenziale che dà al capo di stato facoltà analoghe a quelle esistenti nella costituzione nordamericana. E che ha potere di veto sulle decisioni, e facoltà di richiedere il parere del Tribunal Supremo de Justicia per dirimere i conflitti di poteri.

Il principale punto sul tavolo, dunque, resta l’espulsione del presidente Maduro dal suo posto, ma anche per questo occorre tener conto dei percorsi consentiti dalla costituzione: quello più consono potrebbe essere il revocatorio, un referendum possibile per tutte le cariche politiche a metà mandato e previa raccolta di firme. Un procedimento comunque non rapido e non gradito per quelle componenti abituate a tagliar corto: con le violenze di piazza o con i colpi di mano. E poi, una volta buttato giù Maduro, qule sarebbe il candidato delle destre, dato il livello di conflittualità interna e di assenza di indirizzo comune?
Intanto, a tre anni dalla morte di Hugo Chavez (il 5 marzo del 2013), le destre ricordano il referendum tentato contro di lui nel 2004, e perso. Il chavismo, nei momenti di crisi, ha sempre saputo ricompattarsi, facendo appello a quel «popolo degli invisibili» che ha avuto accesso a diritti mai visti prima del 1998, quando un inedito arco di forze sospinto prevalentemente dai settori popolari (allora l’82% della popolazione venezuelana) ha dato la vittoria elettorale a Hugo Chavez.

«Da qui non mi caccia nessuno», ha detto Maduro dando conto dei progressi compiuti nel paese dal suo piano di Emergenza economico per differenziare la produzione venezuelana, ancora troppo dipendente dal petrolio (ancora ai suoi minimi storici). Il referendum revocatorio può essere convocato dal 20% degli aventi diritto al voto e su richiesta del Parlamento. Ma le destre mirano anche a modificare la costituzione, e intanto cercano di spaccare il fronte chavista per arrivare alla rinuncia del presidente e a una proposta di candidatura a loro più gradita.

Dal carcere, Leopoldo Lopez, il leader oltranzista condannato per le violenze di piazza del 2014 (43 morti e oltre 800 feriti) invita alle vie più spicce. I presidenti socialisti dell’America latina, come l’ecuadoriano Correa, denunciano il boicottaggio contro il Venezuela. Ieri, dal Venezuela, a Cuba, alla Bolivia, tutti hanno espresso solidarietà a Lula.

E a Roma, una video-intervista inedita di Gianni Minà a Hugo Chavez verrà proiettata al teatro Vittoria per ricordare lo statista scomparso.