In un’ultima conferenza stampa prenatalizia, i cui toni prevalenti sono stati rassegnazione e malinconia, Obama ha fatto l’elenco dei suoi successi: dimezzamento della disoccupazione e dei cittadini senza copertura sanitaria, raddoppio delle energie rinnovabili, decrescita di povertà  e debito pubblico, potenziamento di welfare e diritti civili. Elenco encomiabile che rischia tuttavia di venire azzerato fra un mese, quando nello studio ovale si insedierà Trump.

L’ombra del neopresidente sovrasta  l’eredità di Obama e rischia di trasformare il passaggio delle consegne in una pallida uscita di scena per il primo presidente afro americano.

Tutta la conferenza stampa è stata segnata dalla sconfitta e ripetute sono state le domande sull’hackeraggio russo. Negli ultimi giorni il direttore del Cia Brennan ha ripetuto che i servizi di Putin hanno inteso favorire favorire Trump. La valutazione troverebbe ora d’accordo anche l’Fbi di James Comey. Venerdì ha rotto il silenzio  la stessa Clinton, dichiarando che l’interferenza di Putin per «minare la democrazia» americana è stata dovuta ad una «antipatia personale»  nei  suoi confronti.

Con queste premesse l’intervento di Obama è parso un pianto sul latte versato. Non ha giovato l’ammissione di sapere  delle intrusioni russe nei server dei partiti Usa già «all’inizio dell’estate». Ma di non essere intervenuto ufficialmente «nel rispetto dell’imparzialità politica» e per «non incitare ulteriori azioni russe che avrebbero potuto pregiudicare le stesse operazioni di voto». Quest’ultima dichiarazione in particolare ha trasmesso l’immagine di una nazione sulla difensiva.

Successivamente Obama ha raccontato di aver preso da parte Putin a settembre, durante il summit G20 a Hanghzhou, e di aver intimato al leader russo di  «smetterla subito», salvo pagarne le conseguenze. Il momento della rappresaglia, ha dichiarato Obama, è infine arrivato: gli Stati uniti intraprenderanno azioni (presumibilmente attacchi cibernetici) che costeranno care alla Russia. L’effetto delle parole del presidente è stato quello di sottolineare il ritardo dell’iniziativa. E tutta la conferenza stampa ha trasmesso l’idea delle lacrime di coccodrillo, sparse dal leader della nazione che per prima ha portato a compimento atti cibernetici ostili su larga scala. A partire dall’operazione (congiunta con Israele) Stuxnet, lanciata per sabotare impianti industriali iraniani. Dalla Casa bianca emana con evidenza la nostalgia per i tempi in cui la Cia era maestra indiscussa della destabilizzazione di altre nazioni «nell’interessi nazionale» americano. E così l’inedita versione dell’America vittima imbelle degli attacchi alla sovranità assomiglia a una riedizione della guerra fredda. Gli Stati uniti di oggi, nel confronto con quelli dell’epoca, chiaramente ci rimettono.

Obama e la minoranza democratica (più qualche illustre repubblicano fuori linea) puntano ora a montare il caso «russiagate» facendo appello  al patriottico amor proprio e all’antico astio per il vecchio nemico.  «Reagan si rivolterebbe nella tomba sapendo che il trenta per cento dei repubblicani si dice favorevole a Putin», ha detto il presidente uscente. Una frecciata a Trump che non ha superato però la soglia del rammarico.

Ma la mancata cura del futuro del partito, in questo caso i democratici, promette piuttosto di pesare come un macigno sull’eredità di Obama. E rischia di cancellarne i progressi in materia di riforme sociali. Qualunque sia stato il peso dell’assist putiniano, il colpo di mano trumpista che vedrà l’insediamento di un postmoderno caudillo – in barba ai tre milioni di voti presi in meno – è la pietra tombale sul mandato di Obama. A raccogliere i cocci rimarranno milioni di americani (a cominciare dai venti milioni che rischiano di perdere l’assicurazione medica e dai tre milioni di potenziali deportati.) Venerdì Obama non ha saputo far meglio che ripetere di aver avuto colloqui col successore sulla «tutela delle nostre istituzioni democratiche».

A fronte della arcigna restaurazione che prepara Trump col suo gabinetto blindato da pentagono e Goldman Sahcs, l’ostinata – alcuni direbbero imbelle – cautela di Obama fa infuriare ampi settori della sinistra, da Michael Moore a  Bernie Sanders, costretti a constatare ancora una volta l’inefficacia del proprio partito (e rivivere uno spiacevole replay della sconfitta Al Gore.)
Intanto la «nuova guerra fredda» potrebbe non durare più di un mese.  Nel prossimo futuro si prospetta infatti una evidente unità di intenti, strategie e filosofia politica fra putinismo e America trumpista. Basati sul sistematico offuscamento populista e la maschia retorica nazionalista, al riparo delle quali potrà essere più facile dedicarsi alla coltivazione senza scrupoli un potere autarchico.