In Iraq gli attentati terroristici non si contano più. Ieri a Baiji un camion è esploso vicino ad un convoglio militare iracheno, uccidendo 8 persone tra cui un alto ufficiale. Due autobombe sono invece saltate in aria a Baghdad, nel quartiere sciita di Amil (8 morti) e un’altra nella città di Ramadi (12 morti).

La risposta degli Stati uniti è l’ampliamento del contingente militare. Seppure alla Casa Bianca piaccia ripetere il mantra del «nessun stivale sul terreno», Obama ha ordinato ieri il raddoppiamento dei consiglieri militari in Iraq: ne invierà altri 1.500, una parte dei quali sarà dispiegata nella provincia sunnita di Anbar che da quasi un anno è sotto assedio islamista, un’offensiva intensificatosi nelle ultime settimane con il massacro della tribù sunnita di Albu Nimr.

Come i precedenti mille, addestreranno l’esercito iracheno e tre unità di peshmerga. Ma dagli anni dell’occupazione ad oggi tale iniziative, insieme all’armamento dei soldati di Baghdad, non hanno portato risultati: le truppe irachene non sono in grado di gestire l’offensiva dell’Isis né di evitare i continui attentati che scuotono il paese e, secondo fonti del Pentagono, si dovrà attendere almeno un anno per completare l’addestramento.

Per la gestione dell’operazione anti-Isis la Casa Bianca ha chiesto al Congresso di autorizzare l’investimento di 5,6 miliardi di dollari. E se Obama aveva detto solo pochi giorni fa di voler ottenere prima l’ok del parlamento per ampliare la campagna in Siria e Iraq, Washington precisa che l’invio di altri 1.500 consiglieri non rientra nel raggio d’azione del Congresso.

Allo stesso modo non rientra nei piani neanche il dialogo con l’Iran che, secondo diverse fonti, è stato avviato da almeno un mese dal presidente Obama. Nei giorni scorsi la stampa ha parlato di una lettera segreta inviata da Obama all’Ayatollah Khamenei nella quale la Casa Bianca parlava della necessità di una cooperazione tra i due paesi in Iraq.

Washington ha smentito l’esistenza della missiva: «Gli Usa non coopereranno con l’Iran in questo ambito», ha detto Josh Earnest, portavoce della Casa Bianca, aggiungendo di non poter entrare nel merito della «corrispondenza privata» del presidente. Un’affermazione che non smentisce del tutto la notizia.

All’inizio dell’offensiva Isis, Teheran aveva parzialmente aperto alla cooperazione con l’Occidente, per poi proseguire da solo in operazioni militari in Iraq: ha inviato le Guardie Rivoluzionarie a capo del generale Suleimani e ha inviato aiuti militari ai peshmerga. Ieri Khamenei ha risposto che la Repubblica Islamica non intende cooperare con gli Usa. L’Iran non ha mai nascosto il fastidio per quelle che ritiene i reali obiettivi della coalizione: rompere l’asse sciita mediorientale e far cadere il governo Assad.

Dietro, secondo Teheran, c’è la longa manus saudita e turca. Ora a dirlo, però, non è solo l’Iran né sono solo i kurdi siriani. A parlare di alleanza tra Isis e Ankara è un ex miliziano islamista, Sherko Omer, che alla stampa ha raccontato di come il gruppo di al-Baghdadi riceverebbe sostegno logistico da Ankara: «I comandanti Isis ci hanno detto di non temere perché [il nostro passaggio dalla Turchia alla Siria] era coordinato con i turchi. L’Isis vede l’esercito turco come un alleato perché hanno lo stesso nemico: i kurdi».

«Quando abbiamo passato il confine a Ceylanpinar, i soldati turchi ci hanno illuminato con un faro. Il comandante ci ha detto di stare calmi. Ha parlato alla radio in turco con qualcuno. Poi la luce si è spostata e il comandante ci ha detto di muoverci perché quello era il segnale: potevamo passare tranquillamente la frontiera».

A pagarne le spese è ancora la città assediata di Kobane che resiste, ma con difficoltà. L’arrivo dei peshmerga, dicono i combattenti kurdi, non ha cambiato gli equilibri sul terreno. L’Isis controlla ancora la zona est della città: «Sicuramente la presenza dei peshmerga è utile perché bombardano le posizioni islamiste – ha detto Idris Nassan, funzionario di Kobane – Ma l’Isis fa arrivare sempre nuovi combattenti e nuove armi, ne avremmo bisogno anche noi». Ma resta tutto bloccato, combattenti e armi, al di là del territorio turco.