La Siria si prepara a vivere giorni di guerra ancora più violenti e sanguinosi mentre di Domenico Quirico, inviato de La Stampa, non si hanno ancora notizie. Entrato in Siria circa un mese fa, il giornalista italiano da più di tre settimane è scomparso. I timori per la sua sorte aumentano, così come per il reporter americano, James Foley, sparito a novembre, e per altri sei giornalisti svaniti nel nulla. Homs, l’ultima zona da dove Quirico ha comunicato con il suo giornale, è al centro di battaglie forse decisive per le sorti della guerra civile. L’Esercito governativo ha preso il controllo a Homs del distretto di Wadi al-Sayeh, che unisce quelli di Khaldiyeh e la Città Vecchia, due roccaforti tenute dai ribelli per oltre un anno. I combattimenti sono incessanti nella città divisa in aree alawite, sunnite, cristiane e in vari quartieri “misti” e che poco più di un anno fa vide la battaglia cruenta di Baba Amr, costata la vita a tanti civili e anche a giornalisti siriani e stranieri.

L’esercito e le milizie pro-governative avanzano anche nella provincia costiera che fa capo alla città di Banias, una zona popolata in prevalenza da alawiti (sostenitori del presidente Bashar Assad) ma dove non mancano piccoli centri sunniti vicini alla ribellione. Due giorni fa a Bayda, nella stessa zona, secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani (Osdu) dell’opposizione, tra 50 e 100 civili sarebbero stati uccisi dagli «shabiha» pro-Assad. La strage, che attende ancora conferme indipendenti,  sarebbe stata frutto, dice l’Osdu, di una reazione governativa a un attentato avvenuto qualche ora prima. Ieri l’opposizione ha denunciato un «genocidio» di oltre 150 persone. Contro obiettivi civili sparano anche i ribelli che ieri hanno lanciato due missili contro l’aeroporto internazionale di Damasco colpendo un deposito di combustibile e un aereo a terra.

Lo scontro tra ribelli e governativi in ogni caso non sembra destinato a mutare la situazione sul terreno. Gli americani credevano nel crollo in tempi stretti dell’Esercito e di conseguenza del governo centrale. Ora hanno compreso che i ribelli non possono vincere la guerra, nonostante stiano ricevendo molte armi (vedi missili sparati ieri) dalle alleate monarchie del Golfo. Si spiega più con la realtà delle forze in campo che con il presunto uso di armi chimiche di cui si è parlato molto nei giorni scorsi, la decisione di Washington di inviare armi ai miliziani anti-Assad dell’Esercito libero siriano. Ufficialmente la decisione non c’è ancora. E’ però fin troppo evidente che a Washington ha vinto il partito della guerra. Non con un coinvolgimento Usa diretto ma con forniture di armi «letali» ai ribelli. Giovedì il segretario alla difesa, Chuck Hagel, ha detto che la Casa Bianca sta pensando seriamente ad armare le opposizioni siriane. Il presidente Obama ha poi aggiunto: «Dopo aver visto le prove di un massacro, del potenziale uso di armi chimiche in Siria, ora stiamo analizzando tutte le opzioni».

Armi sempre più sofisticate e potenti perciò saranno date ai ribelli e, inevitabilmente, malgrado le assicurazioni americane, finiranno nelle mani anche dei jihadisti del Fronte al Nusra (alleato di al Qaeda) che sino ad oggi sono stati la vera forza d’urto contro l’Esercito governativo. E considerando che Iran e Hezbollah, lo ha detto ad inizio settimana Hassan Nasrallah, leader del movimento sciita libanese, faranno la loro parte «per impedire il crollo» di Assad, l’unica soluzione all’orizzonte siriano è una guerra civile ancora più sanguinosa, brutale e violenta di quello che sino ad oggi ha fatto oltre 70 mila morti. Non sorprende perciò che Lakhdar Brahimi, l’inviato speciale delle Nazioni Unite e della Lega Araba, abbia deciso di mollare. Brahimi dovrebbe lasciare alla fine di maggio.