A Ramallah e Amman ieri si affannavano a ripetere che John Kerry sarà nella regione in un paio di giorni. Invece avranno ragione, con ogni probabilità, i media israeliani che ieri hanno annunciato il rinvio della quinta missione in Medio Oriente del Segretario di Stato americano. Un slittamento di date per permettere a Kerry di prendere parte ai colloqui “decisivi” sulla Siria presieduti da Barack Obama, al termine dei quali gli Stati Uniti quasi certamente annunceranno il via libera alla fornitura di armi ai ribelli. Lo ha riferito per prima l’agenzia di stampa americana Ap e l’indiscrezione è stata sostanzialmente confermata da una fonte dell’Amministrazione Usa. L’eventuale passo americano affonderà ogni residua speranza di convocare a Ginevra la conferenza internazionale di pace, proposta nelle scorse settimane da Washington e Mosca, che dovrebbe dare una soluzione negoziata alla guerra civile in Siria. Doveva tenersi a fine maggio, poi a giugno, ora si dice luglio. Non si terrà mai.

E’ stata la cocente sconfitta subita dalle forze ribelli siriane nella battaglia con l’Esercito governativo per il controllo della città Qusayr a convincere Obama a rivedere la sua decisione di fornire solo soldi e armi non-letali all’opposizione anti-Bashar Assad. Le forze di Damasco ora sono all’offensiva intorno ad Aleppo e si preparano a lanciare operazioni anche a Homs, Hama e a Deraa, pare con buone possibilità di successo. Che Bashar Assad sia in grado vincere la guerra contro i ribelli siriani lo prevede anche il ministro dell’intelligence israeliano Yuval Steinitz. Di fronte all’inconsistenza militare di gran parte dei gruppi ribelli – dovuta più alla frammentazione che allo scarso armamento –  Obama ora corre in aiuto, spinto anche delle pressioni che giungono dai Repubblicani al Congresso e dal capo della Coalizione Nazionale dell’opposizione siriana, George Sabra. Secondo l’Ap gli Stati Uniti forniranno armi a gruppi di ribelli con una visione politica “moderata” e non ai jihadisti del Fronte al Nusra (alleato di al Qaeda) che Washington, alla fine dello scorso anno, ha inserito nella sua lista delle “organizzazioni terroristiche”. Tuttavia le armi finiranno anche ai jihadisti, è inevitabile, e ciò non turberà la Casa Bianca dove sanno bene che gli islamisti radicali sono l’unica forza in grado di impensierire le truppe governative siriane, per la loro esperienza di combattimento maturata su vari scenari, dalla Cecenia all’Iraq. Si prevede inoltre lo spostamento nel Mediterraneo orientale di una portaerei statunitense per imporre una “no-fly zone” su buona parte della Siria. Una mossa che, se unilaterale, potrebbe innescare reazioni fortissime.

La preparazione all’intervento Usa in Siria è in corso da tempo in Giordania e ha toccato il punto più alto due giorni fa con l’inizio delle manovre «Eager Lion» che dureranno fino al 20 giugno, dirette dai comandi militari americani. In campo ci sono 4500 soldati Usa, 300 giordani e altre centinaia di militari di Paesi arabi e della Nato tra cui Italia, Francia, Gran Bretagna Germania, Spagna. Manovre che ufficialmente si propongono di migliorare la difesa di fronte a «minacce alla Giordania, siano gruppi estremisti, attacchi missilistici con testate convenzionali o chimiche o un’invasione di rifugiati», ossia di affrontare gli scenari possibili in caso di un attacco alla Siria. Gli Usa nei giorni scorsi avevano fatto arrivare ad Amman caccia F16 e una batteria di missili Patriot. E nei mesi scorsi in Giordania erano giunti anche 200 soldati dei corpi speciali americani, in vista di operazioni su obiettivi strategici in Siria (gli arsenali con armi chimiche).