«Un messaggio all’America». Così i miliziani dell’Isil descrivono la decapitazione del freelance statunitense James Foiley, barbara vendetta contro i bombardamenti Usa lungo il confine ufficioso tra le aree occupate dai qaedisti e il Kurdistan.

Un video fatto girare in rete martedì dagli islamisti mostra un miliziano con il volto coperto accanto a Foley, in ginocchio, vestito con un’uniforme arancione che richiama palesemente le divise dei prigionieri della famigerata prigione Usa di Guantanamo. Prima dell’uccisione, il giornalista è costretto a ripetere l’appello preparato dall’Isil: «Chiedo ai miei amici e alla mia famiglia di sollevarsi contro i veri killer, il governo degli Stati uniti, per quello che mi accadrà che è il solo risultato dei loro crimini. Non perdete la dignità e non accettate nessun risarcimento per la mia morte da coloro che hanno infilato l’ultimo chiodo nella mia bara con la loro campagna aerea in Iraq».

E ancora, rivolgendosi al fratello John, militare nell’aviazione, il reporter chiude il suo ultimo messaggio: «Oggi muoio, John. Quando i tuoi colleghi hanno sganciato le bombe su questa gente, hanno firmato il mio certificato di morte».

L’uccisione del giornalista, 40 anni, del New Hampshire, è stata confermata dalla famiglia in un post su Facebook nel quale si dice «fiera di lui, ha dato la vita per mostrare al mondo le sofferenze del popolo siriano». Foley era stato catturato da uomini armati nel novembre 2012 proprio in Siria, nella provincia di Idlin, dove copriva la guerra civile in corso per conto di Global Post.

Ma all’Isil l’atroce morte di James non basta e minaccia di uccidere un altro ostaggio statunitense, Steven Sotloff, 31 anni, reporter del Time, che appare nello stesso video. Un messaggio chiaro al presidente Obama che dieci giorni fa ha dato l’ok ai bombardamenti per fermare le barbarie dell’Isil contro le minoranze cristiana e yazidi. A rispondere è Diane, la madre di Foley che implora i miliziani perché risparmino la vita di altri ostaggi che «come James non hanno alcun controllo delle politiche del governo statunitense».

Risponde anche Obama: ieri pomeriggio il presidente ha definito l’omicidio «un atto che ha atterrito il mondo intero» e accusato l’Isil di essere portatore di «un’ideologia fallita, una visione vuota che non ha alcun rispetto per la vita umana e che è destinata a perdere». E poi la promessa, dietro le righe: «Sradicheremo questo cancro prima che si espanda».

Eppure, visto il nuovo uso dei social network da parte dell’Isil, il messaggio lanciato con la morte di Foley appare diretto agli Usa tanto quanto a possibili nuovi seguaci. La proclamazione del califfato islamico, i sermoni dell’autobattezzato califfo Al Baghdadi e le immagini della forza militare del gruppo sono rivolti a ogni potenziale jihadista nel mondo arabo e fuori, nell’intenzione di fare dello Stato Islamico la destinazione di miliziani da usare come strumento per modificare gli equilibri della regione.

Per ora l’unica reazione internazionale alle milizie di Al Baghdadi in Siria e in Iraq è il finanziamento a pioggia e l’armamento dei peshmerga curdi, i soli ad oggi apparentemente degni di ricevere sostegno militare dall’Occidente che sta facendo la fila per inviare armi e denaro. Una strategia che non fa che inasprire i settarismi interni iracheni e la divisione ormai quasi compiuta del paese in tre parti. Dopo aver sfruttato le spinte settarie irachene post-Saddam per garantirsi alleanze strategiche, gli Stati uniti oggi compiono gli stessi errori, svicolando gli appelli di Baghdad che da due mesi chiede l’intervento dei droni.

Oggi, nonostante l’allontanamento del premier Maliki e il tentativo del nuovo primo ministro Al-Abadi di giungere alla creazione di un governo di unità nazionale, Washington prosegue con una strategia che facilita i curdi, impegnati da tempo nell’accidentato percorso verso l’indipendenza. Lo stesso Kurdistan sa però che il potere centrale potrebbe avere un ruolo significativo nell’ottenimento di una maggiore autonomia e non vuole farsi scappare l’occasione di restare con un piede dentro il governo: ieri il curdo Zebari, ministro degli Esteri, è tornato sulla sua poltrona dopo aver sospeso la propria partecipazione all’esecutivo guidato da Maliki, che aveva accusato i curdi di sostenere l’avanzata dell’Isil.

Anche Al-Abadi prosegue per la sua strada e procede con le consultazioni per la formazione del nuovo governo: secondo fonti interne, l’esecutivo sarà formato da 20 ministri, di cui 12 assegnati all’Iraqi National Alliance, coalizione sciita, e 4 a testa a sunniti e curdi. E se in parlamento si cerca l’intesa, sul terreno i primi screzi tra curdi e esercito governativo si fanno sentire, rafforzati dall’intervento militare a senso unico degli Usa: ieri non sono mancate aspre discussioni su chi avrebbe riconquistato parte della diga di Mosul. Baghdad dice il suo esercito, Irbil i peshmerga. E i settarismi si ampliano.