Era previsto che lo facesse, e lo ha fatto venerdì nella quinta e sua ultima visita ufficiale a Londra, dov’è arrivato venerdì scorso. Barack Obama è entrato con tutto il peso della sua megalimousine corazzata nel dibattito sulla permanenza o l’uscita del paese dall’Unione europea.
In un farewell tour punteggiato di impareggiabili opportunità fotografiche – una visita al Globe theatre per le celebrazioni shakespeariane, un discorso a Westminster, una cena dalla neonovantenne monarca – l’ormai uscente presidente americano lo ha detto chiaro e tondo: la Gran Bretagna non dovrebbe lasciarsi sedurre dalla prospettiva Brexit, pena il finire letteralmente «in fondo alla coda» di future relazioni commerciali che inevitabilmente vedrebbero gli Stati Uniti privilegiare trattati con l’Ue nel suo complesso piuttosto che piccoli accordi su misura con singoli partner. La permanenza nell’unione ha fatto il Regno unito più ricco, ha aggiunto il presidente americano, come senz’altro gioverebbe alla sicurezza del paese restare dove è.
Obama, che ha anche avuto un incontro con Jeremy Corbyn, definito «ottimo» da quest’ultimo, ha detto esattamente ciò che era ovvio aspettarsi da lui. Ma questo non ha impedito all’ala destra conservatrice ed euroscettica di rizzare il pelo di fronte a tanta insolente ingerenza nella sovranità nazionale. In particolare, è stato il suo uso della terminologia a ferire la suscettibilità degli ultrà euroscettici, risvegliando in loro un risentimento mai del tutto sopito: quello per un imperialismo una volta tanto subito all’interno anziché inflitto all’esterno, e al quale la «special relationship» funge da ipocrita foglia di fico. Né alla sua terminologia è stata risparmiata una piccata analisi: in un sussulto di empatia tutta americana nel riferirsi alla fila in fondo alla quale il paese rischia di finire, Obama ha usato il British english di «queue» al posto dell’American english di «line», una scelta lessicale che per il Leave denoterebbe chiaramente un’imbeccata da parte di David Cameron.
Un Cameron che, tornato due mesi fa da Bruxelles con in tasca una rinegoziazione della permanenza del paese nell’Ue che forse sperava gli avrebbe permesso di condurre una campagna per il «Remain» senza troppo spargimento di sangue politico nelle fila del suo partito, a soli due mesi dal referendum il prossimo 23 giugno e mentre è coinvolto in una spossante guerra fratricida che sta portando a galla i più bassi istinti nazionalistici e settari dei Tory, può finalmente tirare un sospiro di sollievo: ha incassato il grosso assegno politico dovutogli dall’alleato.
Questo bonus obamiano per il Remain non tarderà a dare i suoi frutti. All’approssimarsi ormai incombente dell’appuntamento con le urne, i soliti sondaggi lo danno nuovamente in testa di misura e la nube di continui ammonimenti dal mondo della grande industria che si addensa sulle dubbiose coscienze degli elettori britannici non farà che rincararequesto vantaggio. È dunque possibile che l’epilogo si profili simile a quello del referendum scozzese: un grande momento di attestazione di sovranità e autodeterminazione popolare capace di dare soprattutto agli elettori moderati quel frisson autonomistico senza però obbligarli davvero a mettere in discussione i capisaldi di uno status quo politico ed economico di cui godono e il cui mantenimento sta in fondo loro a cuore più delle spacconate nazionalistiche di chi – a destra – vorreb be a tutti i costi mollare l’Europa.