Il viaggio europeo di Barack Obama comincia sotto il segno di una crisi che promette di essere un banco di prova cruciale quanto inatteso della politica estera del presidente nell’ultimo biennio del suo mandato. L’Ucraina ha monopolizzato l’agenda europea di Obama quanto il quadro politico interno nel preludio alle elezioni midterm che a novembre decideranno gli equilibri politici dell’ultimo congresso di era obamiana. In buona sostanza l’impentitente linea imperialista di Putin ha gettato nello scompiglio l’equilibrio geopolitico delle crisi «contenute» riaprendo una pratica est-ovest che era, se non archiviata, dissimulata nei conflitti regionali. In comune con quesrti ultimi la crisi ucraina ha il denominatore della strumentalizzazione incrociata dei blocchi antagonisti determinati fare i propri interessi sulla pelle della popolazione.

Ad ogni buon conto, l’azione «esecutiva» di Mosca in Crimea, che venga dipinta come legittima mossa preventiva alla luce di macchinazioni antirusse o bullismo di un autocrate nostalgico postsovietico, ha seminato il disordine nelle fila in una Washington già in assetto pre elettorale. Obama ha un bel daffare per cercare di dissimulare la sostanziale impotenza dietro severe condanne e proclami di sanzioni che per ora si limitano a fare il gioco dell’improbabile vittimismo proiettato da un Putin autproclamatosi novello campione umanitario del Mar Nero.

Mentre i democratici sostengono il progetto delle sanzioni (affrettandosi a segnalare che la loro efficacia dipenderà da un Europa pavida e indebolita dalla crisi), i repubblicani sulla questione ucraina rischiano una spaccatura. Da una lato i falchi come John McCain suonano la carica chiedendo una risposta più decisa, compreso l’invio in Ucraina di una «commissione militare» Americana . Gli fa eco il «cubano» Marco Rubio, pretendente conservatore alla nomination repubblicana nelle prossime presidenziali che specifica: «di fronte alla minaccia russa gli Stati Uniti hanno il dovere morale di armare ed assistere l’esercito ucraino e di inviare preventivamente truppe in Polonia e negli stati baltici».

Fra gli «interventisti» si trovano prevedibilmente falchi di vecchia data come il patriarca neocon William Kristol che non ha perso l’occasione di dichiarare che l’invio di truppe USA non dovrebbe «essere escluso».
Accanto al fronte interventista è emersa però una consistente fazione pragmatica «moderata» fra cui veterani come Brent Scowcroft già advisor del primo Bush e Gerald Ford, e Henry Kissinger, che sostanzialmentne sostengono la linea delle sanzioni e rimangono possibilisti sulla mediazione.

Kissinger in particolare si è espresso contro l’entrata dell’Ucraina nella Nato ipotizzando, prima dell’annessione, una Crimea autonoma in un Ucraina «non allineata» sul modello finlandese.

La crisi infine ha colto più impreparati i liberisti dell’ala Tea Party che da un lato vorrebbero seguire le consegne antiobamiane ad oltranza in vista delle elezioni e dall’altro tener fede alla dottrina isolazionista che li contraddistingue. «Perché dovrebbe interessare agli Stati Uniti quale bandiera sventola su un limbo di terra lontano migliaia di chilometri» è giunto a dire il senatore Ron Paul.

In questo quadro il consenso maggiore è sull’importanza del viaggio europeo di Obama per rinsaldare l’alleanza atlantica a cui la crisi ha ridato un identita’ che alla fine della guerra afghana molti avevano messo in dubbio. Nello scenario di incipiente neo-guerra fredda la Nato ora ritrova un ruolo fin troppo collaudato, e non sono mancati i suggerimenti per rispolverare gli antichi progetti di missili balistici istallati in Polonia e Repubblica Ceca.

Più importante per Obama sarà comunque compattare gli alleati europei attorno al progetto delle sanzioni. Quelle effettive, non puramente simboliche nei confronti di una manciata di oligarchi e funzionari di governo,, potranno funzionare solo con la partecipazione degli europei, cioè delle economie più esposte alle forniture energetiche russe.

Obama inoltre dovrà cercare di verificare se rimarranno praticabili i negoziati sulla non proliferazione e la riduzione degli armamenti nucleari che ha promosso negli ultimi sei anni e che alla luce degli attuali sviluppi i repubblicani non hanno perso occasione di denunciare come colpevole acquiescenza.

Tutto questo c’è sul piatto del presidente nel momento in cui i sondaggi danno ai repubblicani il 60% di probabailità di riprendere a novembre il controllo anche del senato.

Per quanto riguarda la tappa italiana di Obama essa non ha certo grande risalto nella stampa americana salvo come corollario alla visita in Vaticano.

L’incontro con papa Franceso viene invece dipinto come un fatto di peso potenzialmente derminante nella traiettoria dei due uomini, simile a quello di John Kennedy con Paolo VI.

Il New York Times ha sottolienato l’affinità’ del «community organizing» di Obama col cattolicesimo socialmente impegnato (specie nella Chicago della sua educazione politica) e quella dei cattolici americani in generale col nuovo papa.

A questo punto l’alleanza spirituale col ponetifice rischia di esser ciò che di più concreto riuscirà a riportare a casa.