Dopo gli attacchi terroristici Obama ha continuato a ribadire la necessità di vigilare ma anche ad esortare alla calma chiedendo agli americani di continuare una vita normale e non cadere nella trappola della psicosi tesa dai terroristi. Diametralmente opposto è stato il tono dell’ultimo dibattito repubblicano trasformato in un festival della paura in ci sono stati invocati bombardamenti a tappeto di zone civili, spedizioni militari, chiusura dei confini e rappresaglie sulle famiglie dei terroristi.

Una escalation della retorica bellica in cui pacatezza e raziocinio sono stati derisi come incarnazioni del disfattismo di Obama – e per estensione di Hillary Clinton. Forse anche con un pensiero alla campagna elettorale sempre più monotematica, Obama ha ribadito nella conferenza stampa di fine a anno tenuta venerdì, la linea dura contro Isis affermando che la campagna di bombardamenti avrebbe tolto al califfato il «40% del territorio in Iraq» e lo avrebbe messo sulla difensiva anche in Siria.

Mentre a New York il consiglio di sicurezza approvava unanimemente una risoluzione a favore di un piano di pace in Siria, Obama ribadiva a Washington la necessità della fine del regime Assad, ammettendo allo stesso tempo che questo «potrebbe richiedere del tempo». Interrogato più generalmente sulla politica interventista in medio oriente il presidente si è difeso affermando che «non abbiamo iniziato noi la primavera araba. Non sono stati gli Usa a deporre Mubarak ma milioni di egiziani».

Obama ha anche difeso l’intervento in Libia dicendo che se gli alleati occidentali non avessero agito contro Gheddafi «oggi il paese avrebbe potuto essere un’altra Siria» anche se, ha ammesso, la Libia rappresenta «un fallimento dell’intera comunità internazionale – e anche gli Usa sono responsabili di non aver agito con sufficiente decisione, sottovalutando la necessità di ricostruire rapidamente un governo. La conseguenza è l’attuale pessima situazione». Nel suo sunto di fine anno il presidente si è poi concentrato sui successi della sua amministrazione.

«La migliore leadership americana», ha sostenuto Obama, «è quella che non utilizza le bombe ma quella diplomazia che quest’anno ha ottenuto l’accordo nucleare con l’Iran e il trattato trans-pacifico di commercio» e l’accordo sul clima firmato a Parigi. All’indomani del fatidico rialzo dei tassi operato dalla Fed Obama ha ripetuto i numeri della «sua» ripresa rivendicando i 13 milioni di posti di lavoro creati dal 2008 e il tasso di disoccupazione sceso al 5% dagli oltre 10% della crisi.

Obama ha parlato della riforma sanitaria che nel terzo anno ha fatto scendere sotto i 10 milioni (dai 30 che erano) i non assicurati.

Obama ha ricordato che nel penultimo anno della sua amministrazione negli Usa anche gli omosessuali hanno ottenuto il diritto di sposarsi. E il presidente ha ribadito l’intenzione di porre rimedio all’eccessiva severità delle pene – e alle disparità razziali – alla base nell’ipertrofico sistema carcerario americano.

Quest’anno Obama ha firmato la commutazione della pena di 88 detenuti federali – più dei precedenti quattro presidenti assieme. «Rimane molto ancora da fare» ha infine detto il presidente che nel suo ultimo anno in carica tenterà ancora una volta di limitare l’accesso alle armi della cittadinanza più armata al mondo e di promulgare una improbabile riforma dell’immigrazione bloccata dall’ostruzionismo repubblicano. Un altro scontro assicurato è quello su Guantanamo.

Obama ha ribadito di voler chiudere la prigione – in quanto calamita dell’arruolamento jihadista – e tener fede alla promessa elettorale fatta già nel 2008. Fin’ora ogni tentativo si è però infranto sull’opposizione compatta del congresso.

Obama ha preannunciato un ultimo tentativo in parlamento ma non ha escluso in extremis di agire per decreto. «Vi ricordo», ha concluso Obama, «che all’inizio di quest’anno vi avevo detto che nell’ultimo biennio possono accadere un sacco di cose interessanti. E siamo solo a metà strada».