Colin Kaepernick non è Muhammad Alì. Non lo sarà mai, non ha il peso, lo status e forse neppure la volontà di tracciare una strada nella vita civile americana come il fenomeno di Louisville ma in questo frame storico il gesto ripetuto del campione dei San Francisco 49ers che non si alza durante l’inno nazionale contro l’oppressione della comunità afroamericana da parte della polizia continua a far discutere, tra sostenitori e colpevolisti.

C’è chi ha bruciato la sua casacca numero 7 dei 49ers, che al momento risulta essere anche la più venduta della Lega di football. C’è la polizia di Santa Clara che minaccia di non lavorare più alle partite interne della franchigia californiana se Kaepernick continua a «incitare all’odio», una presa di posizione che prova a fare blocco intorno agli uomini in divisa americani, nell’occhio del ciclone per i ripetuti e non giustificati episodi di violenza a danno dei neri e che si sono sentiti presi in giro dai calzini con l’immagine di un maiale con un cappello di poliziotto in testa, indossati dallo stesso Kaepernick lo scorso 31 agosto.

E contro Kaepernick ci sono anche gli ultranazionalisti che cospargono di benzina la sua maglietta rossa, mentre il sito sportivo Bleacher Report ha riportato il pensiero di diversi dirigenti Nfl rimasti nell’anonimato che l’hanno definito un traditore, definendolo il giocatore più odiato della Lega. Insomma il quadro è vario, a favore dell’atleta ci sono anche altri colleghi, come Jeremy Lane dei Seattle Seahawks, che protestano come lui, in silenzio e a capo chino durante The Star Splanged Banner oppure una star del calcio femminile, Megan Rapinoe che invita la comunità di sportivi americani a difendere Kaepernick, a sua volta travolto da una campagna d’odio, oppure il numero uno della nazionale di calcio Tim Howard.

Ma ieri ha spostato e parecchio l’intervento di Barack Obama che ha lanciato un assist al quarterback di San Francisco, rubandogli il mestiere per qualche attimo al G20 cinese. Per il capo della Casa Bianca, Kaepaernick sta legittimamente esercitando un suo diritto costituzionale, aggiungendo di preferire giovani impegnati nella discussione su temi come la violenza e il pregiudizio razziale, piuttosto che una massa silenziosa, di spettatori non paganti.
Insomma, Obama appoggia Kaepernick, considera sincero il suo gesto e conferma il trend che lo vede sempre meno politically correct man mano che si avvicina la fine del suo mandato.

L’uscita del presidente è politica, una risposta a Trump che dopo lo scoppio dello scandalo suggeriva all’asso dei 49ers di trovarsi un Paese che gli piacesse di più. Per il milionario vale ancora il dogma dell’era Bush, quell’«if you don’t like it, get out» che se possibile aggiunge tanta salsa piccante al dibattito già caldo tra rep e democrat per lo scranno alla Casa Bianca. E che potrebbe diventare incandescente se, come pare, Kaepernick continui il boicottaggio silenzioso dell’inno, in attesa dell’endorsement di qualche pezzo grosso dello sport a stelle e strisce, con la politica pronta a salire sul ring.

Anche perché negli Usa ora tutto fa rima con politica: Dwyane Wade, stella dei Chicago Bulls, Nba, ha avuto da dire a Trump, che avrebbe strumentalizzato la morte di una cugina del cestista per le strade di Chicago avvenuta durante una sparatoria, per portare dalla sua parte un po’ di voti dal serbatoio afroamericano.