Stando ai sondaggi del giorno dopo, per eccitare gli animi dell’opinione pubblica americana, basta tornare al repertorio patriottico del primato morale e invocare le «infinite benedizioni» che vanno di pari passo con le «onerose responsabilità» della «lotta al male nel mondo». Così la dichiarazione di guerra all’Isis ha fatto registrare l’83% di opinioni favorevoli per un presidente che alla vigilia godeva del 43% di gradimento. La retorica semplificata si è rivelata molto più efficace in prima serata, rispetto al razionalismo «moderato» che era stato in precedenza il brand di Obama.

Cosa ha trasformato il fautore del ritiro da Iraq e Afghanistan in neo-crociato? Nelle ultime settimane al coro di critiche da destra, si erano sommate voci del suo partito per biasimare «l’alterigia» di un presidente «distaccato», che annoiava coi suoi sofismi sulla «complicate realtà mediorientale».

«Non possiamo usare la forza militare ogni qualvolta si manifesti il radicalismo» aveva detto a maggio del 2013. In un intervista a giugno, aveva esclamato: «Mica possiamo giocare al gioco del colpisci la talpa ogni volta che spunta un estremista». In una stagione elettorale midterm, in cui i democratici rischiano di perdere il senato oltre che la camera, la realpolitik di Obama è passata per ignavia e così il presidente «secchione» d’incanto si è trasformato in Commander in Chief. Saranno stati i sondaggi e un’opinione pubblica bombardata da Tg apocalittici, che considererebbe l’Isis una «seria minaccia» (il 91%) e si dichiara favorevole a bombardare la Siria (il 61%). Così, a reti unificate ha esordito il nuovo format nazionalpopolare. La coreografia da comandante, ha restituito la triste immagine di un abiura imposta da preponderanti interessi costituiti in una guerra permanente.

La retorica di guerra non è il registro naturale di Obama, lui che aveva iniziato il suo primo mandato con uno storico atto di conciliazione verso il mondo arabo. Nel discorso del Cairo del 2009 aveva riconosciuto le responsabilità dell’interventismo occidentale nello sfacelo mediorientale. «La tensione in questa regione», aveva detto, «è stata alimentata prima da un colonialismo che ha negato a molti musulmani diritti e opportunità e poi da una guerra fredda in cui i paesi musulmani troppo spesso venivano considerati come semplici pedine».

Al Cairo un presidente americano aveva articolato pubblicamente il concetto che l’ingerenza occidentale nel mondo arabo non era una soluzione, ma la causa, delle derive estremiste. Accanto a quella dose di inedita verità, suona tanto più forzato iI copione letto dal podio della casa bianca per il quale soprattutto immaginiamo il plauso degli strateghi Isis, che incassano il regalo di una nuova crociata di infedeli recapitata a domicilio. Svanite invece d’incanto tutte quelle fastidiose sfumature che evidentemente possono solo confondere un elettorato: il gioco delle egemonie regionali le connivenze sconvenienti col Pakistan, con Israele e i tiranni Sauditi che irrorano la regione di armi e petrodollari.

I governi fantoccio instaurati a Baghdad che hanno definitivamente sancito la divisione del paese con la persecuzione sistematica dei sunniti sotto gli occhi degli advisor americani. Tutta quella «complessità» invocata fino a ieri, improvvisamente sostituita da un limpido obbiettivo, o meglio da una ennesima offuscante finzione per proseguire una guerra nata da una bugia. Al di la dell’ultimo fanatismo che si è fatto largo fra tutti gli altri sanguinari fanatismi, è questo il dato che rimane da quel discorso così lontano dal Cairo: il senso di una disfatta per il medio oriente martoriato, per l’idea di un America, se non più progressista, meno arcigna.

E una disfatta per Obama la cui precipitosa ritirata nelle convenzioni dell’eccezionalismo americano segna il simbolico capolinea per quel che restava del suo afflato riformista.