Barack Obama getta la spugna. Prima dell’incontro che avrà la prossima settimana alla Casa Bianca con il premier israeliano Netanyahu, ha fatto sapere, attraverso i suoi collaboratori, che un accordo israelo-palestinese non sarà a portata di mano negli ultimi mesi del suo mandato. Il presidente, hanno spiegato fonti della Amministrazione Usa, ha elaborato «una valutazione realistica» della situazione in Medio Oriente. È l’ammissione di una sconfitta dopo i tentativi inutili dell’Amministrazione di avvicinare Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen. L’ultimo, tra il 2013 e l’anno scorso, ha avuto come protagonista il Segretario di Stato John Kerry. Di fatto è l’annuncio che da oggi fino all’elezione del nuovo presidente, gli Stati Uniti non metteranno in campo altre iniziative per portare israeliani e palestinesi al tavolo delle trattative.

 

Più tutto perù è il riconoscimento di un fallimento, del quale è responsabile in prima persona lo stesso Obama che, pur avendone le possibilità, non ha voluto andare oltre la “sacralità” dell’alleanza con Israele, sempre e comunque, anche quando le politiche di occupazione, la negazione del diritto dei palestinesi ad essere liberi e la linea del pugno di ferro degli ultimi tre governi israeliani guidati da Netanyahu danneggiano gli interessi americani. Ha scelto di non andare oltre il conflitto personale, in alcuni periodi molto acceso, avuto in questi anni con il premier israeliano al quale non ha imposto il rispetto delle leggi internazionali, specie sulla questione della colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Obama non ha reagito neppure quando Netanyahu, lo scorso 3 marzo, lo aveva umilato intervenendo davanti al Congresso Usa contro l’accordo sul nucleare iraniano che l’Amministrazione Usa si accingeva a siglare con Tehran.

 

A conti fatti la voce grossa Obama ha saputo farla solo con i palestinesi, in più di un’occasione, smentendo il contenuto del suo discorso all’Università del Cairo che aveva lasciato immaginare non uno stravolgimento ma almeno un cambiamento parziale della politica statunitense nella regione. Giunto all’ultimo scorcio del suo secondo mandato, il presidente Usa sembra interessato solo a uscire dalla Casa Bianca certo di non aver rotto neppure un bicchiere quando si è dovuto occupare di Medio Oriente. Il suo incontro con Netanyahu, lunedì alla Casa Bianca, ricorda quello di un padre che chiede di comportarsi bene al figlio ben sapendo che le sue raccomandazioni cadranno nel vuoto. Il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Ben Rhodes, ha spiegato che al premier israeliano sarà chiesto di rinnovare l’impegno per la “soluzione dei due Stati”, ossia per l’indipendenza palestinese. «È nostra convinzione – ha detto Rhodes – che la soluzione dei sue stati sia l’unica via per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Per raggiungere una pace e una sicurezza che durino nel tempo, dando ai popoli israeliano e palestinese quella dignità che meritano». Le solite frasi scontate che mai risolveranno la questione palestinese che, invece, richiede solo l’applicazione del diritto internazionale.

 

Da parte sua Netanyahu a Washington darà qualche vaga assicurazione – sul terreno comunque il suo governo procede in un’altra direzione – e Obama lo ricompenserà rassicurandolo su Siria e Iran. Il presidente Usa prenderà in considerazione anche la richiesta israeliana per un pacchetto di aiuti militari statunitensi prolungato nel tempo per cinque miliardi di dollari l’anno, quasi il doppio di quello abituale. E Obama, per dimostrare a fine mandato che la sua politica non è mai stata anti-israeliana, come lo accusano i Repubblicani e una parte delle forze politiche in Israele, potrebbe dare il suo pieno appoggio all’approvazione del Congresso, peraltro scontata, per un aumento dell’aiuto annuale.

 

Netanyahu in ogni caso festeggia. Obama tra un anno sarà fuori gioco e al suo posto potrebbe ritrovare una grande amica di Israele, la democratica Hillary Clinton. Ancora meglio andrebbero le cose, se a vincere le presidenziali Usa sarà uno dei candidati repubblicani che fanno a gara nel dichiararsi alleati fedeli di Israele. Uno dei favoriti a vincere le primarie, Donald Trump, un paio di giorni fa, lanciando un’offensiva senza precedenti in campagna elettorale, ha assicurato che in politica estera «Proteggerà Israele e taglierà la testa all’Isis».

 

Sull’incontro alla Casa non peseranno le affermazioni fatte su Facebook da Ran Baratz, in attesa di diventare responsabile per conto del governo Netanyahu delle relazioni con i media, che descrivono Obama come un antisemita e insultano John Kerry. «Quelle frasi sono totalmente inaccettabili e non riflettono le mie posizioni o le politiche del governo di Israele», ha assicurato Netanyahu.