Il summit sulla minaccia terrorista globale convocato a Washington si è concluso ieri con un dicorso in cui Obama ha rammentato ai partecipanti della necessità di affrontare assieme l’attuale escalation di violenza perché «siamo tutti nella stessa barca». Ad ascoltarlo c’erano rappresentanti di una sessantina di paesi che sulla questione stentano invece ad esprimere una voce minimamente unitaria: ministri, ambasciatori e sindaci di molti paesi, venuti ad assistere a tre giorni di summit globale designato dalla sigla vagamente orwelliana e diplomaticamente corretta di Countering Violent Extremism. Il neologismo è stato aspramente criticato dai falchi, insorti per l’omissione di ogni riferimento “islamico” dalla dicitura e qualcuno privatamente ha anche biasimato la tardiva e confusa organizzazione dell’evento visto come tentativo di rimediare alla mancata partecipazione di Obama alla parata di leader di Parigi il mese scorso.

La riunione sulla «violenza estremista» ha chiuso una settimana diplomatica intensa che ha visto anche la riunione del consiglio di sicurezza Onu sulla Libia; malgrado la retorica entrambi gli eventi hanno soprattutto espresso lo smarrimento di una comunità internazionale che in merito stenta a coordinare politiche razionali. Mentre al palazzo di vetro rimbombavano gli appelli interventisti egiziani che reclamavano l’escalation armata in Libia, a Washington Obama ha tentato di serrare i ranghi dando la linea ideologico-semantica, riconoscendo che il convegno riguardava in parte le parole utilizziate per descrivere il problema e optando per l’approccio accademico “soft”. Il titolo innanzitutto, fotocopiato da un rapporto del Qatar international academy for security studies che nel 2012 proprio con la dicitura Cve auspicava una strategia interdisciplinare per contrastare le cause «culturali» della radicalizzazione.

Al di là delle iniziative militari (che continueranno in Siria, Iraq e selettivamente in Somalia, Yemen, Nigeria e altrove, ha assicurato Obama, senza menzionare la Libia) la priorità è contrastare la “narrazione” terrorista, una battaglia in gran parte “generazionale”, quasi un problema giovanile globale. Il nuovo fronte ha aggiunto il presidente «è online» e per contrastare «i video di qualità professionale e i canali twitter terroristi» che mirano a reclutare «giovani menti impressionabili», ha lanciato quella che ai tempi del Vietnam si chiamava campagna hearts and minds (e che ha prevedibilmente le stesse scarse probabilità di successo). L’obiettivo per Obama è rifiutare lo scontro di civiltà messo in scena sui social media e allo scopo ha presentato una serie di iniziative sociali pilota (già sperimentate tra gli immigrati a Boston, Los Angeles e Minneapolis). Dai corsi cinema per giovani a rischio ai concorsi universitari per premiare contenuti digitali anti-radicalizzazione. All’insegna di un pragmatismo tutto americano, un po’ da convegno di marketing, Obama annuncia una nuova carica di “Zar” anti-radicalismo, un centro di cordinamento dei contentuti digitali negli Emirati Arabi e partnership coi privati di Silicon Valley per «indebolire il brand» terrorista.

Nella lista programmatica di parole d’ordine c’è stato appena il tempo di una analisi geopolitica versione bignami: «Occidente e Medio oriente – ha ammesso Obama – hanno una storia complicata, tutti abbiamo colpe», ma ciò non giustifica la «strumentalizzazione dei terroristi al servizio di un’idelogia violenta». Obama non ha specificato se nel complesso retaggio coloniale a cui ha fatto riferimento rientrano anche eventi recenti come l’ntervento Nato in Libia, ma ha preferito confutare la presunta incompatibilità dell’Islam con «modernità e tolleranza» e riproporre la ricetta Usa per l’integrazione globale: tolleranza multicutlurale e mobilità sociale.

L’elenco di buone intenzioni è stato prevedibilmente assalito come imbelle cerchiobottismo dagli avversari repubblicani. A supplire alla speculare mancanza di strategie (al di là delle bombe) con una strumentalizzazione politica propria ci ha pensato il falco eccezionalista Rudy Giuliani che a un convegno conservatore a favore della candidatura presidenziale di Scott Walker ha detto: «Credo davvero che il presidente non ami l’America (…) non è stato educato come lo siamo stati noi ad amare questo paese. Pur coi nostri difetti siamo la nazione più eccezionale al mondo». Vera musica per le orecchie dei tweeter dell’Isis.