In un clima rovente, con migliaia di palestinesi in strada a Ramallah e in altre città della Cisgiordania a scandire slogan contro cedimenti alle pressioni americane e israeliane, Barack Obama ha ricevuto alla Casa Bianca il leader dell’Olp e dell’Anp Abu Mazen. Un Obama indignato per le “violazioni” russe del diritto internazionale in Ucraina e Crimea, non si è mostrato altrettanto indignato per l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est che dura da quasi 47 anni. Il presidente Usa ha detto ad Abu Mazen che i palestinesi devono «correre dei rischi per la pace». Come se per i palestinesi non fosse già rischiosa e insidiosa la situazione in cui vivono da decenni, con l’espansione delle colonie israeliane, le confische di terre, i bombardamenti su Gaza, i posti di blocco, il Muro, la paralisi dell’economia e via dicendo. Sulla necessità di prendere «decisioni politiche forti» ha insistito anche il Segretario di stato John Kerry.

Abu Mazen, sotto pressione, ha replicato aggrappandosi all’ancora di salvezza della liberazione dei prigionieri politici. «Israele, se vuole mostrarsi uno Stato serio, deve mantenere l’impegno di liberare i prigionieri», ha detto con la speranza di inviare un messaggio di fermezza alla popolazione palestinese che attende la liberazione da parte di Israele del quarto scaglione di una trentina di detenuti politici. Abu Mazen si gioca una fetta di reputazione sul rispetto di Netanyahu dei punti dell’intesa mediata da John Kerry lo scorso luglio per il rilancio delle trattative bilaterali che si concluderanno il prossimo 29 aprile. Per il presidente dell’Anp la scarcerazione dei prigionieri è fondamentale. Ma il governo Netanyahu non è intenzionato a concedergli questo successo.

Nei giorni scorsi un ministro israeliano,Yaacov Perry, ha messo in chiaro che in caso di interruzione delle trattative non ci sarà la liberazione di detenuti. Non solo, Netanyahu e i suoi ministri non sembrano avere alcuna voglia di rimandare a casa, così come era stato stabilito, i prigionieri politici palestinesi con cittadinanza israeliana. E un ministro, Israel Katz, ha espresso la totale opposizione all’eventuale liberazione del popolare leader del movimento Fatah, Marwan Barghouti (in carcere in Israele dal 2002 dove sconta una condanna a 5 ergastoli), per facilitare la prosecuzione delle trattative. Secondo un giornale arabo, Abu Mazen per rimanere al tavolo del negoziato dopo il 29 aprile vorrebbe la scarcerazione di Baghouti e del leader del Fronte Popolare Ahmed Saadat. «Se (Abu Mazen) la chiederà, dobbiamo rispondere ‘No’», ha scritto Katz nella propria pagina Facebook. «Barghouti deve marcire in carcere fino al giorno in cui esalerà l’ultimo respiro», ha aggiunto il ministro. Una rigidità che non sorprende. In questi ultimi anni Netanyahu ha fatto scarcerare, nel quadro di scambi di detenuti con Hamas e di intese con Abu Mazen, palestinesi condannati a numerosi ergastoli per attentati e altri fatti di sangue ma ha sempre respinto la possibilità di rilasciare Barghouti e Saadat. Per chi vive nei Territori il rifiuto israeliano vuole impedire che due leader stimati e popolari possano far ritorno sulla scena politica, contribuendo a ridare fiato alle speranze di chi vive sotto occupazione. «Abu Mazen deve chiedere che Saadat e Barghouti siano liberati subito, se Israele non accetta allora il presidente deve abbandonare i negoziati», ripetevano ieri alcuni manifestanti a Ramallah.

Le possibilità che il negoziato faccia passi in avanti sono vicine allo zero. Netanyahu continua a chiedere che i palestinesi riconoscano Israele come Stato del popolo ebraico per poter andare avanti. E non farà marcia indietro nonostante il secco rifiuto di Abu Mazen che teme le ricadute di tale riconoscimento per i diritti dei profughi e per lo status dei palestinesi cittadini di Israele. A questo punto le due parti, per non assumersi la responsabilità del fallimento dell’iniziativa lanciata da John Kerry, con ogni probabilità accetteranno di estendere le trattative fino a dicembre. Un prendere tempo che sposta solo in avanti il momento del tracollo dell’ennesima mediazione americana.