Da anni candidata «ombra» al Nobel; autentica ossessione per i recensori, che non sanno mai a quale corrente o vena letteraria appigliarsi per inquadrarla; autrice di quarantacinque romanzi più altri undici firmati con gli pseudonimi di Rosamond Smith e Lauren Kelly, di centinaia di racconti, raccolti in trentotto volumi, di poesie, pièce teatrali, novelle per l’infanzia e saggi (memorabili quelli sulla boxe, sua antica passione, recensiti qui sotto), Joyce Carol Oates rappresenta uno dei grandi misteri della letteratura americana contemporanea. Non esiste tendenza o scuola che non possa rivendicarla a sé: prolificità, trasversalità ed eclettismo rappresentano la sua unica, paradossale misura. Eppure, l’intera sua opera è attraversata da una serie di nuclei tematici forti e ricorrenti: dal retaggio di violenza, sociale e razziale, che si annida nel cuore del sogno americano, all’oppressione femminile in tutte le sue forme, alla coesistenza inestricabile del reale e del fantastico in ogni manifestazione della vita e del pensiero umani.

Priva di pregiudizi nei confronti dei generi letterari «popolari», Oates non esita a utilizzarli se funzionali al genere di storia che intende raccontare: e non è un caso che proprio con la detective story e il gotico abbia già in passato raggiunto alcuni dei suoi esiti più alti. L’eclettismo ha provocato, inevitabilmente, una serie di accostamenti che appaiono tutti al contempo pertinenti e parziali: che si tratti di certa scrittura femminile «regionalista» (Katherine Anne Porter, Willa Cather i nomi più ricorrenti), del «gotico sudista» di Flannery O’Connor e Carson McCullers, del postmderno dei Barth e dei Coover o del «grande realismo» che culmina nei giganti Updike e Roth. In realtà, i temi più cari a Oates, la capacità di esplorare, spesso calandosi dentro il genere, le radici profonde di una violenza endemica che sembra quintessenziare il proprio paese, e perfino l’iperproduttività e la varietà di toni e registri, sembrano farne la variante highbrow di un autore troppo a lungo collocato ai margini della grande letteratura americana, ma che con il trascorrere degli anni appare sempre più imprescindibile per la definizione del canone contemporaneo: Stephen King.

Non è allora casuale che sia stato proprio King, e dalle prestigiose pagine del New York Times, a tessere le lodi dell’ultimo, stupefacente romanzo di Oates, The Accursed, ora proposto da Mondadori nell’ottima traduzione di Delfina Vezzoli con il titolo Il Maledetto (pp. 636, euro 25,00), definendolo «il primo romanzo gotico postmoderno al mondo: Ragtime di Doctorow ambientato nel castello di Dracula. Denso, impegnativo, problematico, terrificante, divertente, prolisso e pieno di personaggi uno più folle dell’altro». Un giudizio, quello di King, ampiamente confermato dalla lettura, che già dopo poche pagine si trasforma in un tour de force tanto duro quanto gratificante.

La trama del Maledetto non è facilmente riassumibile o sintetizzabile. Il romanzo si svolge per intero a Princeton, New Jersey: città nobile, teatro di una grande battaglia della rivoluzione americana e sede di una delle università più antiche degli Stati Uniti. Gli anni sono il 1905 e il 1906, incunabolo di un secolo di orrori, e sulla scena, accanto a personaggi di pura invenzione, campeggiano alcuni dei giganti della storia e della cultura americana: da Woodrow Wilson, allora rettore dell’università e di lì a poco Presidente del paese intero – che schioderà da un secolare isolazionismo proiettandolo nell’avventura della Grande Guerra, dalla quale uscirà protagonista e trionfatore – all’ex Presidente Grover Cleveland; da Mark Twain a Upton Sinclair e Jack London.

Al centro del plot, che pure si sfrangia e si dirama in mille direzioni – senza che peraltro Oates perda mai il filo della storia e la capacità di regolarne il traffico –, c’è la maledizione che colpisce Princeton, e in particolare gli Slade, una delle famiglie «storiche» della città. Uno dopo l’altro, i nipoti del Reverendo Winslow Slade, faro della comunità, ministro presbiteriano, ex rettore ed ex governatore del New Jersey, cadono vittime di rapimenti, pietrificazioni e altri incidenti che sembrano di origine soprannaturale o demoniaca, o come tali sono valutati dai maggiorenti della città.

Colpevole delle ripetute aggressioni agli Slade sembra essere una sequela di strani personaggi dalle origini oscure, che compaiono a Princeton di punto in bianco e sono accolti con fin troppa, ingenua compiacenza dalle élite locali. E che forse sono altrettante incarnazioni di un’unica entità votata al male, diabolica e vampiresca.

Il merito di Oates, o per meglio dire, uno dei suoi molti meriti, è quello di mantenere il registro narrativo perennemente sospeso tra l’ironia e quella sospensione dell’incredulità che, come Coleridge insegna, ogni opera di poesia, e tanto più la letteratura fantastica, dovrebbe indurre nel lettore.

Le manifestazioni della Maledizione potrebbero essere tanto il frutto di fenomeni di isteria collettiva, quanto autentiche irruzioni del soprannaturale: non mancano i tentativi di spiegazione razionale di determinati eventi, ma ne viene sempre riconosciuta, accanto alla necessità psicologica, la sostanziale inefficacia. Per ottenere questo effetto di sospensione, Oates attinge all’intero repertorio del postmoderno, affidando la narrazione a uno storico pedante, reazionario, vagamente razzista e tutto fuorché imparziale, essendo il discendente diretto di una delle famiglie più coinvolte negli episodi sovrannaturali al centro del suo stesso racconto. E ancora, ricorrendo a diari di dubbia autenticità, lettere, oltre che, nell’epilogo, a un formidabile sermone che sembra uscito dalla penna di un ministro puritano impazzito, e che, potenzialmente, capovolge e riscrive l’intera storia della Maledizione.

Altrettanto postmoderna è la capacità di ripercorrere, in modo consapevole e avvertito, l’intera tradizione del gotico letterario, inglobando anche le teorie critiche che su di esso sono maturate a partire dalla seconda metà del Novecento, e che vedono nel vampirismo – più volte evocato ne Il Maledetto – una potente metafora delle paure della società aristocratica o borghese di fronte alle masse di immigrati che premono alle sue porte, alla mescolanza di razze e di sangue che potrebbe conseguirne, alle rivendicazioni di un ruolo paritario da parte dei movimenti femminili.

Non è un caso che il romanzo si apra con una scena di linciaggio e si soffermi ripetutamente sul razzismo e il disprezzo verso le suffragette che contraddistingue molti dei personaggi storici prestati all’invenzione narrativa, primo fra tutti Woodrow Wilson. O che, ai margini della vicenda gotica, Wilson trovi il suo più autentico deuteragonista in Upton Sinclair, il giovane scrittore socialista che, fresco reduce dal successo della Giungla, è venuto ad abitare proprio nel New Jersey, e assiste da lontano, immerso nel suo sogno rivoluzionario, a una tragedia borghese che in fondo non gli appartiene.Sono, questi, solo alcuni degli elementi che l’autrice mette in gioco, con la maestria della piena maturità: ma dovrebbero essere sufficienti a suffragare la posizione espressa da King: Il Maledetto rappresenta il culmine di un viaggio nel gotico iniziato piùdi trent’anni fa con Bellefleur, e perfetta controparte di Una famiglia americana, vertice della Oates «realistica», si colloca all’apogeo di una carriera davvero prodigiosa.