Nell’opaca cornice di un governo di unità nazionale, che in un modo o nell’altro tocca collocazioni e identità delle forze politiche che ne fanno parte, non dovrebbe stupire nessuno se a patirne le maggiori conseguenze è proprio la forza più giovane e dall’identità più fragile come il Movimento 5Stelle.

Una forza politica che in pochi anni conquista il vertiginoso 32 per cento dei consensi, che sale sul podio del partito di maggioranza relativa, che passa dall’opposizione al governo, che è stata determinante per tre governi consecutivi, non è poi così strano che si ritrovi sull’orlo di una scissione.

In fin dei conti voler tenere insieme Giuseppe Conte e Beppe Grillo è come cercare di unire il diavolo e l’acqua santa. Uno è istituzionale, parlamentarista, garantista per formazione, tanto quanto l’altro è anarchico, populista, giustizialista. Nella fase di crescita tumultuosa dei consensi ha prevalso l’anima movimentista, mentre con l’ingresso nella stanza dei bottoni ha ovviamente guadagnato terreno, tra gli eletti e gli iscritti la scelta di non voler recitare una parte secondaria nel futuro che verrà.

E ieri pomeriggio Conte, in una conferenza stampa, si è incaricato, di confermare il momento di grande difficoltà spiegando che “il Movimento ha criticità, carenze, ambiguità che spiegano gli elettori persi”, e che dunque “non esiste una leadership dimezzata e non serve imbiancare la casa che invece ha bisogno di profonde ristrutturazioni”.

In sostanza Conte dice che i 5Stelle per non morire devono avere “il coraggio di cambiare” non i valori su cui sono nati, ma tutta la struttura, non le fondamenta della casa ma ogni pilastro. Dunque le ragioni della crisi sono spiattellate insieme alla cura per uscirne : “Spetta ora a Grillo e agli iscritti la scelta” se aderire o sabotare.

Del resto, per restare ai travagli dello schieramento di centrosinistra, al quale Conte ha fatto riferimento come “campo largo” in cui ancorare i 5Stelle (mettendo fine all’ambiguità né di destra, né di sinistra), siamo tutti testimoni della recente, drammatica crisi di leadership del Pd.

Della fragile soluzione alle traumatiche dimissioni del segretario Zingaretti, sostituto senza discussione da un neo-segretario intervenuto sulla scena per puntellare il governo Draghi, ma impotente di fronte alle “bande” interne al partito.

D’alta parte, se il vento politico, che ha portato Draghi a palazzo Chigi in piena pandemia, è un vento che a dar retta alla maggior parte dei sondaggi continua a gonfiare le vele delle destre promettendo la primazia alla giovane erede del fascismo, non dovrebbero destare meraviglia le scosse che attraversano i partiti, ma, al contrario, andrebbero lette a conferma della debolezza del fronte democratico progressista.

Non da ultimo per il fatto stesso di vedere la maggiore forza, il Pd, stimata a malapena intorno al venti per cento dell’elettorato, per di più con le forze della sinistra – di governo e di opposizione – che sì e no ottengono il due per cento dei voti (a testa). E difficilmente potremmo aspettarci qualcosa di diverso se queste forze pur camminando nella stessa direzione, viaggiano su strade parallele, divise da muri di incomprensione e da personalismi degni di miglior causa.

Quello che accade ora tra i 5Stelle appare, anzi è, inevitabile. Probabilmente sarà decretata una tregua ma se anche le due componenti verranno in qualche modo incollate, l’amalgama difficilmente riuscirà a tenere. Oltretutto i numeri dei consensi sui quali potevano contare si sono dispersi, andando ad ingrossare in parte le fila della destra e in parte quelle dell’indifferenza, e la controprova è evidente: nessun partito progressista e di sinistra ha trovato giovamento dallo smarrimento grillino.

Adesso la contrapposizione non è tanto sulla scelta governista del movimento, ma sulla filiera di democrazia interna e sul radicamento politico e sociale nei territori. Sulla fine della monarchia assoluta incarnata dall’Elevato, su quei riti della comunicazione che facevano del corpo del re il principale veicolo del messaggio politico, che attraversasse lo Stretto a nuoto, o che navigasse con il canotto sulle folle in piazza. Anche perché ultimamente le sue doti di visionario sono sembrate un po’ usurate (vedi la cantonata di scambiare il ministro Cingolani per un ambientalista e Draghi per il salvatore della patria).

Naturalmente la scelta sarà alla fine determinata dal voto degli iscritti, finalmente liberi dalla catena proprietaria della piattaforma Rousseau.

Uscirne con un passo indietro di Grillo non sarà facile e se la decisione sarà orientata alla separazione, i 5Stelle si troverebbero a replicare una postura da partito tradizionale. Se avvenisse una scissione, cosa ci sarebbe di diverso dagli altri partiti? Ad esempio dal Pd che, dalla caduta del Muro, non trova pace, lacerato da continue divisioni? Oltretutto una dilaniante spaccatura farebbe un favore a chi, da destra a sinistra, passando per Calenda, ne vorrebbe l’estinzione; sarebbe uno schiaffo ai milioni di elettori che li hanno sostenuti; e potrebbe essere devastante per qualsiasi ipotesi alternativa alla preponderante coalizione di destra.

Se non troveranno la strada per una rifondazione, rischiosa ma necessaria, il loro futuro è già visibile tra le stelle cadenti.