In viaggio nella Russia del 1926, Joseph Roth così annotava per la «Frankfurter Zeitung» una delle scene che più avevano colpito la sua immaginazione: «Torme di bambini abbandonati, pittoreschi e coperti di stracci, vanno a zonzo, corrono, stanno seduti per le strade – i besprizornye, che vivono di aria e di sventura». Come lui, tanti osservatori occidentali riferirono, scioccati, le condizioni strazianti della infanzia abbandonata in Russia, tra la fine della prima guerra mondiale e la metà degli anni Trenta. Il fenomeno, che nel 1922 raggiunse dimensioni impressionanti, con un picco di sette milioni di vagabondi minorenni, è al centro dello studio di Luciano Mecacci intitolato Besprizornye Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935) (Adelphi, pp. 274, e 22,00).

«Essere orfano era la condizione comune», tra i cataclismi della Rivoluzione, della guerra civile, delle carestie e del Terrore staliniano. Sfiniti dalla fame, tormentati dalle infezioni, mangiati dai parassiti, in quegli anni terribili i piccoli derelitti si muovevano in branco in lungo e in largo per la Russia e morivano come mosche. L’atteggiamento ufficiale nei loro confronti andò mutando nel tempo. L’appello iniziale delle autorità alla lotta contro la besprizornost’ (in prima fila Nadežda Krupskaja, moglie di Lenin, e Anatolij Lunacarskij), corrispose a uno sforzo genuino di venire a capo di quella piaga attraverso l’istituzione di centri di accoglienza e ricoveri, aprendo agli aiuti internazionali, convogliando energie e risorse nei programmi di rieducazione della gioventù «deviata», ospitata in massa negli orfanotrofi.

Mendicare, rubare, uccidere
Le dimensioni del problema, la disorganizzazione, l’inadeguatezza delle misure intraprese, la riottosità dei piccoli fuorilegge, recalcitranti alle «severe fabbriche di ’uomini nuovi’, colonie o lager che fossero», da cui fuggivano appena potevano, erano ostacoli a volte insormontabili. Nel 1935 arrivò la decisione di perseguire penalmente, già a partire dai dodici anni, i piccoli sbandati che si rendevano colpevoli di atti criminali, con un limite di età abbassato personalmente da Stalin e in un disegno di «liquidazione» dai risvolti inquietanti.
Senza essere stata affatto debellata, già dagli anni Venti la piaga diventò un tema letterario, variato ogni volta in modo diverso: gli scrittori «ortodossi» se ne appropriarono edulcorandolo in edificanti parabole di riscatto, tanto più credibili se lo scrittore di turno poteva vantare un personale passato da besprizornyj: Viktor Avdeev, per esempio, e Aleksandr Neverov. Altri, come Andrej Platonov, incorporarono stabilmente il fenomeno nel loro universo narrativo. Ancora negli anni Ottanta, il romanziere Anatolij Pristavkin avrebbe attinto ai propri ricordi per trattare lo stesso tema.

Dalle pagine del lavoro di Mecacci ci vengono incontro le figure di Majakovskij, Pil’njak, Bulgakov, Paustovskij, Babel’. E naturalmente del pedagogista Anton Makarenko, che mise i piccoli reietti al centro del progetto educativo raccontato nel suo Poema pedagogico, mentre i quadri di Fedor Bogorodskij ne cristallizzano l’iconografia dolente, riprodotta in appendice al volume, insieme a mappe, stampe, scatti fotografici e documenti d’epoca.

Fissate le coordinate storico-sociali che riguardano i «figli del cuculo» (la definizione è di Ehrenburg), Mecacci declina in ogni capitolo una voce dell’aspro catalogo delle loro imprese, tristi imperativi codificati dagli ineludibili bisogni primari: fuggire, mendicare, rubare, uccidere, prostituirsi, drogarsi, tormentare. Il volume è costruito come un montaggio di voci, in cui le testimonianze autobiografiche si alternano agli stralci dei fascicoli di polizia, e le crude relazioni degli educatori russi si intrecciano ai resoconti dei soccorritori stranieri delle missioni.

Brani di finzione tanto veritieri da sembrare autentici contrastano con reportage che sconfinano nell’inverosimile, tessendo una vasta mole di documenti, in larga parte inediti in italiano, talvolta a lungo censurati o proibiti anche in Russia, dove le storie si accavallano, le figure (reali o inventate) si riaffacciano da un capitolo all’altro a illustrare ogni volta da un’angolazione diversa la condizione dei piccoli disperati.
La vita da besprizornyj era una specie di esistenza parallela, che si consumava negli interstizi della società sovietica «sana»: quei ragazzi si nutrivano di avanzi immangiabili del cibo altrui, mendicavano scarti di vestiario in cui avvolgersi, si insinuavano negli spazi inabitabili e invisibili che dentro le grandi città diventavano i loro rifugi: sotterranei bui e umidi di metropolitana, condotte fognarie, perfino i calderoni del catrame per l’asfalto che durante la notte conservavano un prezioso calore. Anche dei mezzi di trasporto utilizzati nei loro incessanti spostamenti, che corrispondevano a strategie di sopravvivenza stagionale, i bambini utilizzavano propaggini apparentemente inservibili, come i predellini dei tram (nelle tratte urbane), o impraticabili, come i respingenti e i pianali dei convogli, i tetti stessi dei treni (lungo le distese della Russia).

Come ogni altra formazione «criminale», le bande di ragazzini svilupparono un gergo proprio, che travalicava tutte le etnie, osservavano rigide gerarchie interne, coltivavano un’etica fatta di solidarietà e cinismo. Internati nei lager, diventarono a loro volta (per puro divertimento) flagello di invalidi e vecchi, come raccontano Solženicyn e Grossman, entrando in quel mondo «da pionieri della malavita», come moleste squadre di marmocchi che facevano corpo a sé. Una volta adulti e «recuperati» alla società, i superstiti ingrossarono le fila dei soldati mandati al macello durante la seconda guerra mondiale o quelle della polizia segreta.
Da un certo punto in poi, negli anni Trenta, il fenomeno diventò inaccettabile: strideva con i trionfalismi dell’utopia realizzata, e chiedeva di essere taciuto o rimosso dalla coscienza collettiva. La mistificazione ufficiale poteva piegare a una visione ottimistica anche il quadro più desolante: qualcuno prese una biografia di successo e la sovrappose al faccino sporco del besprizornyj intrufolatosi al fianco di Lenin, immortalato in una foto del primo maggio 1919. Il celebre biologo Nikolaj Dubinin rivendicò di essere quel ragazzino (e la sua grottesca finzione resse fino alla caduta dell’Unione Sovietica).

Film tenuti nascosti
«Com’è successo che migliaia di bambini sono stati gettati per la strada come gattini?» – si chiedeva un interlocutore di Paustovskij negli anni Venti. Il recente proliferare di riflessioni storiografiche e analisi sociologiche e psicologiche, che riecheggiano nello studio di Mecacci, cerca di dare risposta a questa domanda, mentre nella Russia post-sovietica si assiste a una recrudescenza del fenomeno, con i besprizornye del nuovo secolo, di cui troviamo traccia in letteratura, nelle serie televisive o nei film d’autore (come in Loveless, di Andrej Zvjagincev, del 2017). E mentre riemergono solo ora spezzoni di filmati terribili tenuti accuratamente nascosti per quasi un secolo negli archivi.