«Su questo pianeta, siamo tutti sulla stessa barca ma non abbiamo tutti le stesse responsabilità. E il motore che può generare cambiamento è ancora il conflitto democratico non violento».

Si potrebbe riassumere così la “Weltanschauung” che contrappone l’Expo dei popoli – il forum internazionale della società civile che alla Fabbrica del Vapore di Milano, per tre giorni e fino a ieri 4 giugno, ha messo a confronto i movimenti contadini di mezzo mondo – dalla celebrata Esposizione universale di Rho.

Una visione totalmente diversa di come si possa raggiungere l’obiettivo di eliminare la fame e la malnutrizione nel mondo per ottenere un sistema alimentare resiliente, equo e sostenibile: imprescindibile è il rispetto dei diritti umani, la parità di genere, la redistribuzione del potere e della ricchezza, e il rispetto dei limiti del pianeta.

Si parte da qua per sviluppare i concetti riportati nel documento conclusivo del meeting sottoscritto da decine di associazioni e movimenti contadini di ogni nazionalità.

Principi che in parte sono presenti anche nella Carta di Milano, il testamento dell’Expo ufficiale, criticata però dai più importanti movimenti contadini mondiali intervenuti al forum milanese – tra cui La Via Campesina, l’International planning committee for Food sovereignty o la Rete delle comunità del cibo di Terra Madre – perché, come spiega Giosuè De Salvo, portavoce del Comitato Expo dei Popoli, «la Carta parla di una grande alleanza tra governi, imprese e cittadini senza distinguere le diverse responsabilità in campo. Se, come giustamente sostiene papa Francesco, “Quest’economia uccide”, allora ci sono degli assassini e delle vittime». Ad uccidere sono «certe politiche aziendali, governative, nazionali e sovranazionali», è «l’attuale modello industriale di agricoltura, trasporti e consumo». Le vittime sono «chi soffre la fame e la malnutrizione, chi viene espropriato di beni comuni quali acqua, terra e sementi, coloro a cui viene negata la dignità del lavoro e coloro che non hanno nessun rimedio legale per le violazioni dei loro diritti fondamentali».

In poche parole, come ebbe a dire il molto citato Olivier De Schutter, Special rapporteur dell’Onu per il diritto al cibo, «non sarà sufficiente rivedere la logica del nostro sistema alimentare, occorre rovesciarla».

Lo raccontano in tutte le lingue, i rappresentanti dell’agricoltura a conduzione familiare e di piccola scala, «esclusi – fa notare De Salvo – dall’Expo ufficiale nonostante producano il 70% degli alimenti consumati a livello globale e siano oggi giorno i principali investitori in agricoltura, e proprio nell’anno in cui le Nazioni unite stanno definendo i nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile e un nuovo Accordo globale contro il cambiamento climatico».

Lo ripete anche la guest star dell’evento, lo scrittore, storico e performer inglese Tristram Stuart, autore di «Waste: Uncovering the Global Food Scandal», che della lotta agli sprechi alimentari ne ha fatto uno stile di vita anticonsumistico, diventando attivista del freeganism e cibandosi di prodotti freschi scartati dai supermercati.

Tanti i temi trattati, tante le testimonianze, ma in fondo chiedono tutti solo giustizia ed equità, per «trasformare i sistemi agroalimentari globali da fonte di profitto per pochi a fonte primaria di diritti per tutti».

«Ad oggi – stima Jorge Stanley Icaza, del Consiglio internazionale del Trattato indigeno di Panama – oltre 40 milioni di ettari di terreno sono stati espropriati in tutto il mondo da imprese private, governi, élite e speculatori, spesso con il sostegno della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e del G8». Sgomberi forzati, deportazioni e oppressione spesso «in nome della prevenzione dei cambiamenti climatici, della produzione di energia “pulita”, di progetti mega-infrastrutturali e del cosiddetto sviluppo».

Il land grabbing, poi, va sempre di pari passo con l’accaparramento dell’acqua che avviene in diverse e molteplici forme: dalla privatizzazione dei servizi idrici alla contaminazione delle falde acquifere causata da attività estrattive deregolamentate, dalla costruzione di dighe con conseguente “desplazamento” di intere comunità fino alle guerre della sete. Tutte generate dagli input dell’industria – armata e non – che ormai tengono sotto scacco il pianeta.

Di particolare importanza – fanno notare Elizabeth Mpofu (coordinatrice internazionale della Via Campesina) e Carlin Petrini (Slow Food international) – è «l’attacco» alle sementi dei contadini, che sono il pilastro della produzione alimentare, e alle biodiversità: «Le specie sono diminuite del 52% dal 1970 ad oggi e per soddisfare le richieste che attualmente rivolgiamo alla natura avremmo bisogno di un pianeta Terra e mezzo».

Eppure basterebbe ridare ai piccoli agricoltori la libertà di utilizzare le loro sementi, come hanno fatto per migliaia di anni.

Ma a mettere «in gioco la base stessa dell’esistenza dei contadini» sono – denunciano in vario modo anche l’egiziana Emily Mattheisen, di Habitat international coalition, e la statunitense Deborah James, di Center for economic and policy research – i cosiddetti accordi di libero scambio e di libero mercato, i trattati di investimento bilaterali e le leggi di rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale sulle sementi.

Come il trattato Ttip, l’accordo che massimalizza i poteri delle multinazionali europee e statunitensi, o come il suo precursore Tpp, o il Tisa, il patto «segreto» tra 50 paesi per la liberalizzazione del commercio dei servizi. Accordi che includono il meccanismo di Risoluzione delle controversie tra investitori e Stato chiamato Isds che consentirebbe alle aziende di «citare in giudizio gli Stati e le autorità locali, sulla base di “concorrenza sleale”».

In sostanza, come spiega la stessa Commissione europea, se l’investitore ritiene che il Paese ospitante abbia – con una norma o con un appalto pubblico – violato le disposizioni degli accordi in materia di protezione degli investimenti (sementi, servizi idrici, tutela del territorio o in qualunque altra materia), può richiedere un indennizzo senza passare per un tribunale, perché nell’Isds «la controversia è sottoposta al giudizio di uno o più arbitri scelti dalle parti». «Questo – è il giro d’allarme che viene dall’Expo dei popoli e che difficilmente troverà un’eco tra i padiglioni dell’Expo renziano – ai nostri occhi è del tutto inaccettabile e deve essere fermato».