Con Rabbia e perdono La generosità come giustizia, libro uscito per la Oxford University Press nel 2016 e prontamente tradotto da Roberto Falcioni per Il Mulino (pp. 410, euro  28,00), Martha Nussbaum aggiunge un nuovo capitolo all’indagine sui rapporti fra i sentimenti e la costruzione del nostro essere sociale, avviata nel 2001 con L’intelligenza delle emozioni. A quel primo testo Nussbaum ha fatto seguire negli anni successivi altri lavori sempre basati su un duplice registro argomentativo: da un lato far luce su moventi molto generali dell’azione e del giudizio umano, universali antropologici che tuttavia prendono forme differenti a seconda dei contesti storici e sociali, dall’altro intervenire su fenomeni d’attualità mettendo in discussione alcuni luoghi comuni del liberalismo, a partire da quello che contrappone la razionalità della legge e l’irrazionalità delle passioni.

Nessi emozionali
Già in Nascondere l’umanità, del 2004, Nussbaum aveva parlato di una politica fondata sul disgusto e sulla vergogna come base delle discriminazioni di razza e di genere che permettono ai gruppi dominanti di isolare le minoranze svantaggiate e difendersi, così, dalle loro paure. Con Emozioni politiche, del 2013, si era concentrata invece sull’amore e sul sentimento di uguaglianza, fonti di apertura e di inclusione nei confronti dell’altro. Ora in Rabbia e perdono il rapporto fra le due spinte fondamentali alla chiusura e all’apertura, a una politica di discriminazione e a una di accoglienza, viene affrontato in vista di un’elaborazione che non le rinneghi, ma ne addomestichi l’energia per sviluppare un sistema normativo e sociale più equilibrato. È in fondo il senso dell’apologo che apre il libro e che Martha Nussbaum trae dal finale dell’Orestea di Eschilo. La dea Atena fonda un ordine giuridico nuovo per la città, istituisce un tribunale, formula procedure ben regolate per i processi e per porre fine al ciclo interminabile delle vendette di sangue. Le antiche personificazioni della furia, le Erinni, non vengono però cacciate dalla città. Potranno anzi essere collocate in un posto d’onore, a patto che si trasformino in divinità benevole, in Eumenidi, nuovi «strumenti di giustizia e di benessere».

Martha Nussbaum ha ben chiaro come la rabbia qualifichi, oggi, un intero atteggiamento politico nutrito dal rancore, dalla frustrazione e dal desiderio di rivalsa. D’altra parte il perdono, a prima vista l’esatto opposto della rabbia, gode in ambito politico e morale di una popolarità e di un consenso mai registrato prima fuori dal campo delle dottrine religiose. Tra perdono e rabbia, però, esiste un legame profondo, una connessione che invita a pensare entrambe queste emozioni non per come vengono vissute o manifestate, ma per i loro effetti, per i risultati che raggiungono passando magari attraverso vie contorte.

Pantani vendicativi
Non esiste un solo tipo di rabbia, precisa Nussbaum, e non tutte le sue forme possono essere declinate in una chiave costruttiva. C’è una rabbia implacabile di «restituzione», che si esprime quando pensiamo che solo il dolore di chi ci ha inflitto un torto può riparare il danno da lui provocato. Sul piano delle relazioni private si cerca allora di provocare nella controparte la sofferenza più acuta possibile, portratta per il tempo il più lungo possibile, mentre sul piano sociale la rabbia di restituzione rimane vendicativa e accetta come risarcimento solo la distruzione del colpevole, con la pena di morte, il carcere a vita, l’evirazione chimica e così via.

In un altro genere di rabbia a essere messo in gioco è il nostro status: ci sentiamo squalificati, declassati, o anche solo misconosciuti dal comportamento dell’altro e cerchiamo la sua umiliazione per ristabilire l’integrità del nostro ruolo. Entrambe queste forme si autoalimentano e crescono su se stesse senza realmente trasformare i loro contenuti di partenza. Non si progredisce, non si risana il torto subito, non si guadagna l’immagine di una dignità restaurata ma si rimane impantanati nella ripetizione del meccanismo vendicativo. Una temporanea sensazione di sollievo non esclude la partecipazione al gioco delle parti nel quale l’offesa appare sempre inestinguibile e il desiderio di risarcimento mai sazio.

La rabbia positiva che mira alla ricostruzione, tanto del Sé offeso quanto dei legami sociali, è quella che Martha Nussbaum chiama «rabbia di transizione» e che, lungi dall’autoalimentarsi, trasforma i conflitti e le persone, come nel passaggio dalle Erinni alle Eumenidi. È una rabbia non priva di razionalità, è in rapporto esplicito con il polo del perdono e può diventare persino edificante quando viene rivolta contro l’ingiustizia. La rabbia degli oppressi e dei ribelli, il sentimento per cui «bisogna fare qualcosa», è certamente una spinta che Nussbaum riconosce, ma alla quale non è disposta ad attribuire tratti di nobiltà.
In un libro che è ricchissimo di esempi raccontati e analizzati con maestria, i casi di Martin Luther King e di Nelson Mandela sono richiamati per mostrare come persino l’appello strategico alla violenza fosse da collocare, per loro, «nell’ottica di una transizione verso la collaborazione futura» e, dunque, «in uno spirito di non-rabbia». Per Mandela, in particolare, la rinuncia alla vendetta culmina nel perdono come atto rivoluzionario per eccellenza, gesto pragmatico e costruttivo che ridefinisce la convivenza civile a un nuovo livello di qualità e di consapevolezza.

Difficile dissentire se si resta nel dibattito della teoria politica contemporanea, dove sono diffuse le difese della rabbia come veicolo di affermazione identitaria e le accuse di debolezza nei confronti del perdono. Resta da chiedersi però quanto un sentimento così depotenziato, spogliato dei suoi contenuti pulsionali, possa ancora chiamarsi rabbia o non sia piuttosto l’elemento di una dialettica interna al gioco degli statuti normativi, per i quali può avere un’utilità solo la parte non-rabbiosa della rabbia.
Martha Nussbaum smentisce preventivamente chi voglia avvicinare la sua posizione allo stoicismo romano, per il quale conoscere una passione equivaleva a elaborare una tecnica per contenerla. Eppure l’esito è molto simile, il tentativo è quello di funzionalizzare la rabbia fin dov’è possibile funzionalizzarla e di ricondurla, comunque, a un’economia dei sentimenti nella quale ogni fattore esplosivo, incoercibile, ossessivo, viene messo sul conto di divinità primitive ancora incapaci di trasformarsi in Eumenidi.

La musica redentrice
Non è privo di significato che l’ambito in cui le tesi di Martha Nussbaum fanno maggior presa appartiene al mondo dell’arte, perché è nell’arte che la trasfigurazione della rabbia in perdono può avvenire senza lasciare dietro di sé alcun resto. La musica, in particolare, fornisce a Martha Nussbaum l’esempio perfetto di un perdono senza condizioni, senza scopi, senza rabbia, senza più un giudice che si erga da qualche parte, in un tribunale o nell’al di là, per valutare il peso delle colpe. Nella Sinfonia n. 2 di Gustav Mahler per Nussbaum si incarna un momento ideale: «l’escatologia è sostituita con l’amore terreno, non c’è Paradiso, non c’è Inferno, non c’è alcun giudizio. Solo amore e creatività».