Agli avventori del café Shuka di Iavune Ghandi nel centro di Tehran, sembra incredibile il nuovo corso in politica estera dei tecnocrati, al governo in Iran dal giugno scorso. «È il principale successo dopo la vittoria di Hassan Rohani», ci spiega Mohammed Nuri, uno degli attivisti che si attarda alle porte di questo minuscolo punto di incontro degli intellettuali iraniani. E così la notizia che l’accordo tecnico tra i P5+1 (membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e Germania) è stato raggiunto non meraviglia nessuno. Dal prossimo 20 gennaio l’accordo di Ginevra del 24 novembre 2013, che potrebbe mettere fine a dieci anni di contenzioso sul programma nucleare iraniano, entrerà finalmente in vigore, avviando i sei mesi transitori fino all’approvazione dell’intesa definitiva.
Il presidente degli Stati uniti Barack Obama ha parlato di un «progresso concreto» che però non consente di nutrire eccessive «illusioni» sull’esito finale del negoziato. Obama ha ribadito la possibilità che vengano approvate nuove sanzioni in caso di mancato rispetto degli impegni di Ginevra, tra cui spicca lo stop al 5 percento dell’arricchimento dell’uranio, accettato da Tehran. Mentre veniva annunciato il raggiungimento dell’accordo e l’invito in Iran all’Alto rappresentante della politica Estera europea, Catherine Ashton, l’establishment conservatore ha placato immediatamente ogni entusiasmo. Ali Akbar Salehi, capo dell’Organizzazione per l’Energia atomica di Tehran ha dichiarato alla stampa locale che è stato presentato al Majlis (il parlamento iraniano) un progetto di legge che, se dovesse passare, permetterà all’Iran di raggiungere il 60 percento di arricchimento dell’uranio, livello che avvicinerebbe la costruzione di un ordigno atomico. I segnali dei negoziatori che hanno lavorato nell’ultimo anno per la soluzione del programma nucleare sono conciliatori. Il negoziatore iraniano, Abbas Araqchi ha assicurato che Tehran proseguirà le attività di ricerca e sviluppo in materia nucleare, e insieme fermerà l’espansione delle strutture coinvolte nel programma nucleare. Ma la diplomazia iraniana è ora impegnata a riprendere un ruolo centrale nella crisi siriana. Per questo il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif sta per volare a Mosca dove incontrerà il suo omologo russo Sergei Lavrov per discutere dell’esclusione iraniana alla conferenza di pace sulla Siria (Ginevra 2) del prossimo 22 gennaio.
Intanto ferve l’attesa per una ripresa economica. L’Iran riceverà dall’inizio del mese di febbraio un versamento di 550 milioni di dollari parte dei 4,2 miliardi che erano stati congelati a causa delle sanzioni internazionali. Verranno poi gradualmente sospese le sanzioni nel commercio di materiali preziosi, le esportazioni iraniane nel settore petrolchimico e automobilistico che hanno portato lo scorso anno livelli di inflazionie senza precedenti in Iran. «Ma non ci illudiamo, fino a questo momento non abbiamo visto dei cambiamenti sostenziali ma solo una stagione che ricorda le aperture dell’ex presidente Mohammed Khatami», ammette Sogol, attivista e video maker che sostiene il moderato Rohani. Eppure fa ben sperare l’annuncio che il movimento Etemad Melli (Fiducia nazionale), erede del partito riformista Mosharekat (Partecipazione), potrà riprendere le sue attività. L’iniziativa potrebbe aprire la strada al rilascio dei leader riformisti Mehdi Karroubi e Hossein Mussavi, agli arresti in seguito alle manifestazioni anti-regime del 2011. I tecnocrati incassano finalmente un primo alleggerimento delle sanzioni, ma dietro l’angolo c’è lo scontro con pasdaran e ultraconservatori sempre pronti per un passo indietro.