Sulla quarta di copertina dell’ultima edizione di Introduzione alla cultura visuale di Nicholas Mirzoeff, curata da Meltemi (387 pp. 24 euro), leggiamo «La nostra vita ha luogo in uno schermo», parole che suonano come un amaro presagio in un tempo che ha visto gli schermi sopperire a ogni forma di socialità altrimenti inesistente.

È l’incipit, perentorio ma efficace, del libro edito per la prima volta da Routledge nel 1999, nel quale l’autore aveva raccolto le idee e le intuizioni emerse dai suoi seminari all’Università del Wisconsin e alla Stony Brook University. Un libro che sarebbe diventato un riferimento irrinunciabile per orientarsi all’interno della visual culture, nata nella prima metà degli anni ’90 con il pictorial turn teorizzato da W. J. T. Mitchell e con la ikonische Wende formulata da G. Boehm. Un campo di studi che nei primi anni Duemila cercava di ricostruire le condizioni di possibilità della produzione, distribuzione, manipolazione e del consumo delle immagini all’interno del mondo postmoderno e globalizzato.

LO SFORZO di comprendere questo mondo è affidato a una disciplina che si rivelerà indisciplinata ma perfettamente in linea con l’invito di Roland Barthes a praticare la transdisciplinarietà intesa non come l’accostamento di più discipline ma come una ricerca che avesse dei nuovi oggetti di indagine. La visual culture accetta la sfida e tenta di far convergere estetica, semiotica dell’immagine, media studies, letteratura comparata, storia dell’arte, neuroscienze e altre discipline che si occupano di immagini in un mosaico transdisciplinare ma spesso ambiguo e problematico.

Per questo ogni tentativo di percorrerne le possibili genealogie risulterà sempre parziale quanto verosimile e richiederà un continuo riposizionamento e un costante esercizio di ricognizione. Nella prima parte Mirzoeff offre una ricostruzione della storia della visualità che ha trovato nella pittura e nella fotografia i dispositivi di riproduzione veritiera della realtà, per arrivare allo scioglimento della distinzione tra virtuale e reale sugli schermi delle televisioni e in tutto il cyberspazio.

NELLA SECONDA passa quindi a cogliere il nesso tra le immagini e i regimi di potere, e riprende un’analisi dello sguardo come strumento di costruzione delle identità. Uno sguardo che si pone alla base di meccanismi di classificazione in termini di sessualità, razza e genere, e dal quale deriva la necessità di intraprendere un cammino per uno sguardo transculturale. Una prospettiva che lo porta sorprendentemente a un’analisi della fantascienza che negli anni ’70 avrebbe mutuato dal colonialismo il timore che l’identità bianca dominante aveva dell’altro-da-sé, spostando in una dimensione aliena il mito americano della frontiera.

Nella terza parte l’esplosione del visuale viene restituita nella sua dimensione globale attraverso la narrazione della morte di Lady Diana, prima icona e vittima della nuova era della distribuzione istantanea e globale delle immagini.
Il pattern argomentativo di Mirzoeff è poliedrico, non uniforme e a tratti può disorientare. Sembra ispirato al movimento imprevedibile del fuoco, presente e impalpabile, reale e virtuale. E la visual culture viene definita in ultima battuta proprio come «ciò che arde in questo momento».

ALLORA, tornano in mente l’omicidio di George Floyd ripreso dai telefoni dei passanti, e tutto ciò che ha innescato, i video virali delle donne cilene che ripetono in coro e performano «El violador eres tú», e come hanno fatto il giro di centinaia di piazze, la marea verde che ha riempito le strade dell’Argentina e ha ottenuto la legalizzazione dell’aborto.