L’articolo 9 della Costituzione tutela il paesaggio e il patrimonio culturale, non la natura: una visione antropocentrica e estetica, con l’articolo 44 che parla di “sfruttamento del suolo”. Stentiamo a realizzare che la natura è essenziale per la nostra sopravvivenza, la diamo per scontata, ma se si deteriora la nostra vita diventa miserabile.

Lo ha capito Francesco con la sua Enciclica, e ora le donne al potere lo ribadiscono: Ursula von der Leyen, Angela Merkel, Jacinda Ardem (Presidente della Nuova Zelanda), Zuzana Caputovà (presidente della Slovacchia) hanno messo la natura e la sostenibilità al primo posto nei loro programmi. In Italia questa visione non riesce ad entrare nelle agende politiche e si ferma ai ricercatori e alle associazioni ambientaliste.

I miliardi che arriveranno a seguito della crisi pandemica dovranno servire per innescare la transizione ecologica, il green deal, ma siamo culturalmente attrezzati per affrontare questa sfida? O stiamo riproponendo i modelli che ci hanno portato alla crisi attuale? Questo rischio se non ci muoviamo è forte.

Il Covid 19 ha messo in ginocchio l’economia globale e globalizzata e stravolto la nostra vita quotidiana. È la prova generale di quello che succederà quando la crisi ambientale esploderà – improvvisa e apparentemente senza preavviso – se non interveniamo subito per evitarla.

Non soltanto di ondate di calore, inondazioni, siccità, incendi e ghiacci che si sciolgono, e di epidemie, si tratta, ma di sconvolgimenti di tutto il modo di funzionare dei sistemi naturali, quelli che ci permettono di vivere e prosperare. Sconvolgimenti che porteranno a carestie, all’aumento delle disuguaglianze, della povertà, delle migrazioni di massa e delle guerre e probabilmente alla riproposizione di un mondo diviso in blocchi pronti a combattersi con armi letali.

La lezione che la natura ci sta dando mostra come i modelli di produzione e consumo pre-covid, che vedono la crescita economica come unico obiettivo strategico, hanno fallito. Non possiamo pensare, finita una crisi epocale, di ricominciare abbracciando gli stessi paradigmi che hanno innescato la crisi, con la speranza che identici modelli portino a risultati differenti.

Accanto ai molti segnali negativi, per fortuna ce n’è uno positivo, e importante: arriva dall’Unione Europea che, già prima della crisi, ha riconosciuto la necessità di un nuovo patto verde per l’Europa (Il Green Deal europeo1), e ora sta mettendo cifre importanti a disposizione degli Stati più colpiti dalla pandemia. L’Italia è al primo posto per gli importi che saranno erogati.

Bisogna evitare in tutti i modi che la considerevole quantità di euro che dall’Europa si sta riversando sull’Italia, oltre alla enorme quantità di risorse che verranno dai sacrifici dei cittadini italiani, vada a investimenti per la restaurazione del “business as usual” invece che al Green Deal. Anche perché, se non orientato davvero al Green Deal, quell’aiuto europeo non può essere chiesto.

Come useremo questi fondi? È chiaro che se si vuole imboccare seriamente la difficile fase della transizione l’intervento pubblico è essenziale, come guida agli investimenti.

In Italia, fra gli anni ’50 e inizio ’60 sono stati avviati progetti di pianificazione, via via cancellati dall’ondata di privatizzazioni degli anni ’80. Oggi dovremo ripensare, anche criticamente, a quell’esperienza per trovare forme che consentano di evitare la statalizzazione, e però incoraggino l’intervento pubblico intrecciato con l’iniziativa privata, avvicinandosi all’esperienza della socializzazione (dei beni comuni, per esempio).

Quel che è chiaro è che non si può ricominciare come se nulla fosse. E per cominciare è necessario che l’accesso agli aiuti europei venga attentamente condizionato.

La crisi è un’occasione irripetibile per correggere i nostri modelli di sviluppo con un cambiamento radicale nella realizzazione della conversione ecologica che – ci dice la comunità scientifica internazionale – è indifferibile. La parola chiave per lanciare nuove sfide è sostenibilità, che si riflette nei modelli di produzione e consumo, e si basa sulle fonti energetiche rinnovabili e sulla economia circolare, preservando l’integrità degli ecosistemi e difendendo il suolo.

È una sfida che si vince solo con il sostegno della ricerca scientifica e tecnologica e di un forte sistema di istruzione a tutti i livelli, in cui si venga preparati a una visione sistemica dei problemi e che ponga l’educazione ambientale fra i pilastri del percorso formativo