Scuola di cinema per diverse generazioni, la Mostra di Pesaro diretta da Giovanni Spagnoletti ha indagato ogni anno e approfondito le tematiche di diverse cinematografie, prediligendo nelle prime edizioni firmate da Lino Micciché (questa edizione è la quarantanovesima) quelle sotto dittatura o stretto controllo per poter rendere liberi di circolare i registi e le opere, le idee e gli scambi. Negli ultimi anni lo sguardo al continente latinoamericano ha privilegiato cinematografie che si sono fatte notare nei festival internazionali: dopo l’Argentina quest’anno è la volta del Cile. I film cileni dell’ultima generazione hanno una caratteristica introspettiva che li contraddistingue, senza per questo renderli più isolato di quanto non sia geograficamente il paese. I numerosi premi ricevuti internazionalmente hanno catturato l’attenzione, anche su tematiche locali e particolari, nate dalle viscere più profonde della cultura cilena, più che dagli eventi politici. Sarà per questi successi dei giovani che il fondo di finanziamento al cinema ha negato al veterano illustre Alejandro Jodorovski il sostegno al film biografico sulla sua vita romanzesca, realizzato poi in maniera indipendente e pur sempre giunto sugli schermi di Cannes. La nuova onda è presentata proprio nell’anno in cui per la prima volta un film cileno ottiene la nomination all’Oscar, No, di Pablo Larrain (programmato nell’avantfestival il 23), giovane cineasta che si è misurato con maturità stupefacente con il periodo della dittatura.

Basta con il realismo magico, afferma da tempo il nuovo cinema cileno neanche tanto propenso a occuparsi delle vicende del passato. Si rivolge più volentieri ai nodi irrisolti all’interno della borghesia. Le divisioni all’interno della società, nonostante le trasformazioni dell’ultimo decennio, sono ancora così nette da essere stato messo ai primi posti come problema da affrontare dalla Bachelet tornata in campagna elettorale. Ma non si parla tanto di questo nei nuovi film: non è più la classe alta assediata che si difende con i fucili da caccia dalle bande di ladri, come nei film di Caiozzi o che paga qualcuno a vigilare tutta la notte armato di bastoni intorno alle case del barrio alto come abbiamo visto fare. Nei film che si vedranno a Pesaro ci sono i turbamenti, le ossesioni di adolescenti e giovani che fanno i conti con le regole, i rituali ferrei, il maschilismo che ha come controparte un subdolo matriarcato stile anni cinquanta, la potente arma di ostentata frivolezza nei modi e nella voce cantilenante, con parole piene di diminutivi che fa sentire l’altro un vero uomo. Tra un modello e l’altro ecco insinuarsi l’omosessualità nascosta. I personaggi dei film hanno per lo più la stessa età dei registi e attori: il microcosmo circoscritto da Sebastian Lelio, a cui si dedica la personale, isola meglio di altri queste figure archetipiche familiari e le analizza senza interferenze: padre, figliolo e incognita, la Sagrada familia. Una pur ordinata e colta famiglia, in vacanza pasquale nella casa sull’oceano, con i suoi rapporti di forza sconvolta dall’arrivo della ragazza, attrice disinibita piuttosto dedica agli stupefacenti – ce ne sono di tutti i tipi in questi film – inutili espansioni di piccole coscienze. Lelio sa creare un certo clima spaventoso in attesa che il tranquillo status quo esploda. In Navidad mette ancora in scena il triangolo, ma riflette sul tema dell’omosessualità (altra faccia del machismo), appena accennato in Sagrada familia, qui piuttosto come una delle possibilità di adolescenti non ancora formati del tutto nella loro identità sessuale. E ancora la casa come simbolo di una struttura familiare da superare crescendo, mettendo al in crisi, la casa di campagna appena venduta dalla madre con tutto quello che c’è dentro, mentre la figlia decide che bisogna andare a salvare almeno qualcosa, si porta dietro il ragazzo e nella notte daranno ospitalità a una quindicenne sperduta. La nuova generazione mette in discussione consuetudini e stili di vita, si osserva nella trasformazione. È in El año del tigre che raggiunge risultati più metaforici, dove tsunami e violenza sono parte della società. Solo pochi anni fa La vida de los peces (2010) di Matías Bize faceva vagare i suoi personaggi come in un acquario, senza poter prendere decisioni, né avere desideri né forza di conquista. Nel flusso di una festa di compleanno di uno degli amici del cuore, neanche il ricordo dell’amico scomparso, neanche la donna della vita riescono a scuotere dall’apatia il protagonista. E la magia del film è che solo verso la metà il pubblico si accorge che il regista sta osservando «nuotare» i personaggi in un liquido che li imprigiona. Una sensazione affine a ciò che anni prima esprimeva il cinema argentino, realizzato dai cineasti nati dopo la dittatura, il senso di afasia, di spaesamento. Ricordiamo che il cinema cileno per primo aveva espresso il primo film legato all’annullamento della memoria, già nel 1994, Amnesia di Gonzalo Justiniano. Qui però non ci sono legami evidenti con il passato, molto più con lo spaesamento del presente. L’effetto nel neoliberismo che ha portato il Cile alla crescita economica (la «Pantera» del latinoamerica), spostato parte delle «servitù» femminile verso le fabbriche o gli impieghi meno servili, è al centro di Huacho di Alejandro Fernandez Almendras (giornalista prima di diventare cineasta), un film che ha fatto effetto non solo all’estero. Raccontare la vita dei contadini (huacho significa «solo nel mondo») non è così scontato, sono piuttosto invisibili nell’immaginario, puro folklore in quella società classista. È la vecchietta che fino a pochi anni fa vendeva il formaggio fresco di casa in casa per pochi centesimi di pesos (ed oggi il costo, sentiamo nel film, è balzato a 1500 pesos per l’aumento del prezzo del latte), la donna che faceva la «nana», la governante nelle case, il contadino. Huacho mette in moto riflessioni su persone e paesaggi, su natura e cultura impensabili prima per uno spettatore cileno che i contadini neanche li vedeva nel suo orizzonte, né la classe media li incontrava se non nelle cucine. Perfino gli acquisti si facevano in negozi separati. Fernandez si avvicina e mostra la giornata di una famiglia contadina dal mattino alla sera, tenendosi stretto sui personaggi che abitano in un luogo del sud, nella zona di Chillan, il sud tanto decantato per il suo paesaggio appena metti piede in Cile. Ma nei paesi che hanno subito la dittatura i cineasti non mostrano volentieri il «paesaggio», uno dei vanti del nazionalismo, la terra sacra della nazione da difendere anche a costo di migliaia di torturati e desaparecidos. Dall’Argentina al Cile alla Grecia questo rifiuto è elemento comune. «Se vuoi vedere il paesaggio comprati una cartolina», pare abbia detto il regista al coproduttore tedesco che lo invitava a fare qualche «bella» ripresa. Si vedrà qui come cerca di barcamentarsi la povera famiglia con gli alti costi del neoliberismo, senza un lamento, compiendo i gesti umili del lavoro quotidiano (il vecchio nei campi, la nonna a manipolare il latte perché diventi queso fresco, formaggio da vendere sulla strada, la madre lavorante in un ristorante, il bambino emarginato dai compagni di scuola perché non possiede i giochi elettronici. Ognuno chiuso in se stesso, in silenzio, nell’incapacità di reagire. Muto nella sua angoscia è anche il protagonista di Carne de perro di Fernando Guzzoni, anche lui giovanissimo indagatore di una tematica decisamente tabù come la posizione di un torturatore nella società contemporanea. Alejandro il protagonista infatti è un ex militare che vive tormentosi esami di coscienza a cui non riesce a trovare sbocco. Guzzoni è partito da un’indagine sugli ex militari, molti di loro, contadini costretti ad arruolarsi tra il ’73 e l’88, che lottano oggi per rivendicazioni sindacali perché sostengono che furono arruolati non per libera scelta, e molti con l’avvento della dittatura si sono trovati anche senza lavoro. Chi sono queste persone? «È il tassista che ti porta a casa», dice il regista, può essere chiunque. Un tempo dedito alla tortura, oggi tuo vicino di casa, «È un modo per dire ai cileni di andare a vedere sé stessi». Rende più prezioso il film il fatto che il protagonista Alejandro Goic è un ex torturato e la sua presenza nel film non manca di grande generosità.