A volte un’immagine vale più di tante analisi. Immaginate una prigione di massima sicurezza e una cella in isolamento. Immaginate un carcere destinato ai peggiori criminali e ai terroristi all’estremo confine nord-occidentale, a due passi dalla Grecia. Il più lontano possibile dal sud est kurdo: questa è stata ieri la destinazione finale del co-presidente dell’Hdp, il Partito Democratico dei Popoli, Selahattin Demirtas.

La co-presidente, Figen Yuksekdag, non ha avuto sorte migliore: anche per lei prigione di massima sicurezza ma a Kocaeli, nord est di Istanbul. Così il governo turco tratta parlamentari democraticamente eletti sui quali pesano accuse di terrorismo, di cui la magistratura non ha mostrato prove concrete.

E se si può ampiamente dibattere sulla natura del presunto complice Pkk (per Turchia, Ue e Usa organizzazione terroristica, per tanti altri un movimento di liberazione), a contare non sono le prove giudiziarie: bastano quelle politiche. L’Hdp, oltre che rappresentare un’ampia fetta della comunità kurda, è prima di tutto fazione di sinistra votata da milioni di turchi stanchi del nazionalismo fascistoide dei vertici. Da mesi Demirtas chiama al cessate il fuoco, alla ripresa del dialogo tra governo e Pkk. Eppure è tacciato di terrorismo.

Lo sono anche altri nove funzionari dell’Hdp arrestati ieri, dopo l’ondata di fermi di venerdì contro i parlamentari del partito. È successo ad Adana, città al confine con la Siria: unità speciali della polizia turca, addirittura accompagnati da elicotteri, hanno compiuto raid nelle case dei nove funzionari e li hanno portati via. Una repressione sistematica che non finirà qui, ci dice al telefono Berivan Atalas della commissione Esteri dell’Hdp: «Molto probabilmente ci saranno altri arresti contro i nostri parlamentari, funzionari e sostenitori. È una repressione di lungo termine portata avanti usando la detenzione fisica».

«Al momento sono otto i deputati in carcere, tra cui i co-presidenti. Solo quattro di loro sono stati rilasciati, ma sotto controllo della polizia. Stiamo mobilitando tutta la nostra gente, il popolo dell’Hdp in Turchia, ma anche sostenitori fuori. Useremo ogni mezzo democratico a partire dalle manifestazioni di piazza. Oggi [ieri] c’è stata una protesta a Istanbul ma la polizia ha attaccato i manifestanti e alcuni di loro sono stati arrestati, non ho il numero esatto».

Dagli uffici dell’Hdp si rialza già la testa: ieri il comitato centrale insieme al partito cugino del Dbp ha tenuto un meeting per organizzare un sit-in a Diyarbakir. «Ci aspettiamo una mobilitazione significativa di tutti i movimenti democratici popolari in Turchia che in queste ore ci stanno sostenendo con dichiarazioni e promettendo manifestazioni – conclude Atalas – Al contrario di partiti come il Chp, solidale solo a parole».

Sono tacciati di terrorismo anche i giornalisti del quotidiano Cumhuriyet. Dopo i fermi della scorsa settimana, ieri nove giornalisti sono stati ufficialmente arrestati. Tra loro il direttore Murat Sabuncu. L’accusa – di nuovo – è di aver commesso crimini a favore di ben due organizzazioni terrostiche, Hizmet dell’imam Gulen e il Pkk, come se i due fossero soggetti ideologicamente assimilabili.

Una precisione maniacale che calpesta senza problemi anche i fatti: tramite la propria agenzia stampa Amaq, lo Stato Islamico ha rivendicato l’attentato di venerdì a Diyarbakir, un’autobomba in cui sono morte 11 persone a poche ore dagli arresti di massa contro l’Hdp. Subito Ankara aveva bollato il Pkk come responsabile, giustificando l’affermazione con la vendetta che il Partito dei Lavoratori aveva promesso dopo le manette strette ai polsi dei 13 parlamentari.

Ma l’Isis si è attribuito l’attentato. Non stupisce: non è la prima volta che lo Stato Islamico massacra la Turchia e colpisce le comunità kurde. L’autobomba è inoltre saltata in aria a pochi giorni dall’appello-audio del “califfo” al-Baghdadi che ha invitato i suoi uomini – molti presenti in territorio turco con cellule note alle forze di sicurezza – a invadere il paese per vendicarsi della partecipazione all’operazione su Mosul.

Poco importa, il responsabile per la narrativa del governo resta il Pkk. Lo ha ribadito ieri il governatore di Diyarbakir che cita intercettazioni in mano agli inquirenti. A monte sta la necessità di plasmare il nemico più adatto alla strategia del sultano Erdogan e della sua politica di potenza regionale: il Pkk è l’avversario perfetto perché minaccia il mito della grande nazione turca e le ambizioni da impero ottomano del presidente.

Lo fa a sud-est, come lo fa nel nord della Siria e in Iraq. Insomma è il nemico perfetto perché sfruttabile in tutto il Medio Oriente, per impedire partecipazione politica alla minoranza kurda in Turchia e per costruire finalmente quelle zone cuscinetto in Iraq e in Siria utili a spezzettare i paesi vicini.