È un piccolo, prezioso testo, questo di Antonio Tosi, Le case dei poveri. È ancora possibile pensare un welfare abitativo? (pp. 182, euro 18), edito da Mimesis. La questione dell’abitazione, com’è noto, è un classico delle politiche urbane e influenza in modo determinante la costruzione dello spazio metropolitano. Ora Tosi – un coraggioso e intelligente cattolico-liberale – invita a porci di nuovo il problema ragionando sui «limiti del welfare abitativo» classico così da scorgere le «invenzioni sociali sperimentate nelle politiche neoliberali» e la «specifica costruzione del sociale che tali politiche hanno introdotto». Si dirà allora: ecco il neoliberale che ripete il suo discorso contro un sistema in cui «tutto dipende dallo Stato» e sulle virtù progressive del libero mercato. Ci sbaglieremmo.

TOSI PROCEDE piuttosto a una «analisi disincantata del quadro delle politiche neoliberali» ma a partire dai limiti dell’impostazione precedente, chiarendo così che non si può definire il neoliberismo come «semplice riduzione delle politiche» o «ritiro dello Stato». Il neoliberismo è una variazione sulla logica stato-centrica che privilegiava la «domanda normale», quella dei «salariati qualificati, dei redditi stabili, le key workers families, il cui obiettivo era la «riproduzione della forza-lavoro e l’integrazione sociale attraverso la casa, l’assistenza e la repressione del vagabondaggio». In tal senso esso dipende dall’emergere di nuove soggettività – tanto sul lato della domanda, quanto sul lato dell’offerta – e compone strategie post-statuali che vanno interrogate criticamente.

LA CHIAVE DEL LIBRO, insomma, è nel titolo: sono quei poveri – «immigrati irregolari, richiedenti asilo, rom residenti in insediamenti informali, abitanti di baraccopoli, squatters» – che definiscono i contorni soggettivi «di un nuovo regime di marginalità urbana», frutto della logica di «espulsione» che tiene insieme tento le politiche abitative classiche, quanto le riforme neoliberali del settore. E sono dunque questi poveri, i loro bisogni e le loro lotte, che permettono di «reimpostare i termini della questione abitativa» e leggere innanzitutto l’incoerenza «programmatica» inscritta nel programma moderno della questione abitativa. Il volume abbonda di dati precisi e illustra con acume le differenze decisive nell’impatto della svolta neoliberale tra i diversi paesi europei – dalla Francia, dove il modello universalista è più forte, fino all’Italia, certamente il paese in cui tradizionalmente più debole è stata la capacità di rispondere alla domanda proletaria di abitazione.

Ma quanto conta è l’assunto di base: «cent’anni di politiche nei paesi più industrializzati, non hanno mai eliminato l’esclusione abitativa. Di fronte a questa constatazione, l’idea che la crisi possa trovare risposta nell’estensione delle misure consolidate appare del tutto inadeguata». Tanto nel modello classico, quanto nel social housing contemporaneo, infatti, permangono pesantissimi fattori di «maltrattamento dei poveri»: logiche specialistico-burocratiche, cronicizzazione dell’emergenza, astrazione dalla concreta condizione dei soggetti destinatari delle politiche. A partire dagli anni ’80 l’area della povertà – colpevolizzata da retoriche individualizzanti – è cresciuta enormemente, come a disegnare la contro-città della rendita immobiliare. Il primato della logica proprietaria – pubblica o privata – ha stretto in un nodo gordiano gli interessi della rendita e quelli dello stato di diritto, riservando all’area cronicizzata «dell’emergenza» fasce sempre più ampie della popolazione.

PER INVERTIRE la situazione, allora, è dai soggetti in carne ed ossa che si deve ripartire. Se si dice poveri ciò serve a qualificare una condizione che ormai attraversa le frontiere stabilite tra lavoro e non lavoro, della cittadinanza e della migrazione. Per spiegare la crisi abitativa, tradizionalmente si evoca la riduzione progressiva del budget a disposizione delle amministrazioni locali. Ma ciò non toglie affatto, secondo Tosi, che si possa già adesso pensare a una forte mobilitazione della società attorno a obiettivi complessi: strategie integrate contro la homelessness in termini di diritti; offerta articolata di sistemazioni per redditi molto bassi gestita da attori associativi; invenzione di istituzioni stabili per le situazioni di emergenza o le soluzioni temporanee etc. Più in generale, assai convincenti sono le pagine in cui l’autore cerca di rovesciare il paradigma del social housing in direzione di un «utilizzo sociale del settore privato dell’affitto e del mercato immobiliare» attraverso il sostegno mutualistico tra gruppi di inquilini e le pratiche di intermediazione verso i proprietari che non vogliono affittare a soggetti svantaggiati.

ESEMPI in tal senso possono essere trovati nelle Agenzie Abitative Sociali in Belgio, nel Rental Accomodation Scheme in Irlanda o nelle proposte di Jean-Pierre Lévy in Francia. Certo, scrive Tosi, si tratta di «una partita incerta» ma che chiama in causa la necessaria invenzione di un nuovo Welfare, più ricco e articolato di quello stato-nazionale. La lotta per la casa, insomma, è battaglia politica centrale, che interroga direttamente l’accesso al reddito per tutti e il diritto di decidere dove vivere.