L’incriminazione di Donald Trump è destinata ad accelerare ulteriormente la polarizzazione che ha stravolto i contorni politici d’America, un paese che stenta ormai apparentemente a trovare i minimi requisiti per una funzionale coesione nazionale, somigliando sempre più a due nazioni «separate in casa».

Più che una semplice contrapposizione politica, il divario consolida una fondamentale frattura culturale ed epistemologica che assomiglia a quella su cui metteva in guardia Abraham Lincoln nel celebre discorso di investitura come candidato del proprio partito nel 1858. «Una casa divisa contro se stessa non può reggere» avvertiva il futuro presidente pochi mesi prima dello scoppio della guerra civile che avrebbe confermato tutti i suoi timori. «Una nazione non può esistere al contempo libera e schiava».

L’attuale divisione non può che rimandare a quella catastrofica scissione. Le «culture wars» sono state carburante del movimento nazional populista che sta stravolgendo la stessa identità nazionale di democrazia liberale. Favorita anche dall’ordinamento federale in cui i singoli stati godono di ampia autonomia (lo stesso che favorì anche la secessione del sud schiavista), il paese ha intrapreso un processo di separazione interna.
Marjorie Taylor Greene, fra le deputate più estremiste del Congresso (e papabile candidata a vicepresidente di Trump,) promuove ormai apertamente quello che ha definito un «divorzio nazionale» fra stati conservatori e progressisti per manifesta ed irrimediabile incompatibilità. Le velleità secessioniste sono sempre state presenti nelle frange di destra, e non è forse un caso che la mappa dei red states, gli stati amministrati dai repubblicani, somigli molto a quella della Confederazione sudista. Fatto sta che oggi l’idea non è più solo argomento di incendiaria retorica, ma prende la forma concreta degli statuti promulgati dagli «stati rossi».

In Usa, 26 dei 50 stati dell’Unione sono controllati da governi GOP, sempre più propensi a codificare la retorica delle «guerre culturali» in leggi che prendono di mira diritti che sembravano acquisiti da decenni. Contemporaneamente gli stati democratici («blu») come New York e la California dove risiede la maggioranza della popolazione, hanno adottato emendamenti per iscrivere i diritti a rischio nelle proprie costituzioni, proclamandosi «stati santuario».

La scorsa settimana Gavin Newsom, il governatore della California, ha annunciato un tour di stati rossi per denunciare «a casa loro» le politiche che «proscrivono libri, criminalizzano medici, intimidiscono bibliotecari, rapiscono migranti, attaccano ragazzi trans, fomentano l’antisemitismo e obbligano donne violentate a portare a termine le loro gravidanze…».

Post-Repubblicani
Per i repubblicani, ma sarebbe più esatto a questo punto parlare di destra post-repubblicana, è ormai normalizzato intanto attaccare la controparte come «pedofili e comunisti» (termini che nell’immaginario reazionario si equivalgono come apoteosi di male assoluto) ed usare le amministrazioni locali come laboratori di governo anti «woke», il termine che ha soppiantato la correttezza politica come anatema pigliatutto della destra radicale. Così in Arkansas la governatrice, Sarah Huckabee Sanders (ex portavoce di Trump alla Casa bianca) ha da poco firmato una legge che proibisce l’uso del termine neutro «latinx» per descrivere una persona ispanica. Sempre a protezione della grammatica tradizionale, gli insegnanti dello stato sono tenuti a comunicare ai genitori se gli alunni chiedono di venire identificati con pronomi non conformanti. Nel confinante Tennessee, il mese scorso è entrata in vigore la legge SB0003 che limita l’adult cabaret. L’eufemismo si riferisce a spettacoli di drag queen, in quanto lesivi apparentemente dell’incolumità morale dei bambini.

In era populista, il gender è oggetto ricorrente dei contenziosi «culturali» cavalcati dalle neo-destre. Numerosi stati hanno adottato decreti che vietano o limitano terapie di riassegnazione del sesso per i minori, per ultimo il Kentucky. Il caso della censura del David a Tallahassee ha suscitato molto scalpore, ma si tratta solo della proverbiale punta di un più vasto e sistematico iceberg. Nelle scuole della Florida è ormai vietato per legge parlare di omosessualità o coppie non etero normative. Da quando è stata promulgata la legge detta «don’t say gay» un’apposita commissione governativa è tenuta a certificare che nelle scuole siano ammessi solo libri privi di possibili elementi di «indottrinamento gay.» In attesa che il libri passassero il vaglio della commissione «morale», alcuni amministratori preoccupati di incorrere in sanzioni penali per i nuovi, poco definiti, reati di pensiero e di parola, hanno preferito l’epurazione preventiva di molte biblioteche scolastiche dove i libri sono stati rimossi o occultati. Altre nuove restrizioni sull’educazione sessuale, che parrebbero più di casa a Kabul che a Miami, proibiscono di menzionare le mestruazioni prima della seconda media. Gli insegnanti «trasgressori» sono passibili di licenziamento e perdita dell’idoneità professionale. Un clima così illiberale di intimidazione non si respirava dagli anni del maccartismo,
Il caso di frattura più palese ovviamente riguarda l’aborto. L’abrogazione della garanzia federale codificato in Roe v. Wade da parte della corte suprema ha rimesso ai singoli stati l’autonomia decisionale.

Nella maggior parte degli stati conservatori, l’interruzione della gravidanza è stata rapidamente resa illegale o fortemente ristretta. Col decadimento della garanzia federale in alcuni casi, come in Wisconsin, sono rientrati automaticamente in vigore proibizioni risalenti all’800. Medici e personale sanitario sono divenuti passibili di pesanti pene anche detentive, tribunali hanno emesso ingiunzioni per obbligare madri a portare a termine gravidanze anche in casi senza possibilità di sopravvivenza del feto, dottori hanno rifiutato di interrompere gravidanze anche in casi di necessità medica o hanno aspettato che la vita della madre fosse effettivamente in pericolo – ad esempio per setticemia – prima di intervenire. Metà degli stati americani sono tornati al 1972, quando le cittadine erano costrette segretamente ad «espatriare» in stati garantisti per abortire, rischiando l’arresto o peggio (in South Carolina a marzo è stata proposta una legge che equipara il reato di aborto all’omicidio e prevede sanzioni fino alla pena di morte).

La divergenza è macroscopica e le leggi dimostrano una cinica strategia di usare questioni fortemente polarizzanti come strumenti di aggregazione della base con politiche fortemente ostili a minoranze, immigrati ed avversari ideologici. Un GOP che tradizionalmente è stato il partito del liberismo e dello stato minimo si è fortemente radicalizzato ed ora incarna sempre una politica aggressiva e autoritaria di stampo totalitario. La scorsa settimana il parlamento del Tennessee, controllato dai repubblicani, ha espulso due giovani deputati democratici che in aula avevano protestato l’ennesima strage, stavolta in una scuola di Nashville dove un ex alunno aveva falciato tre inseganti e tre bambini di nove anni a colpi di fucile automatico. Come di norma, i repubblicani avevano bloccato il dibattito su eventuali misure restrittive del porto d’armi. Mentre all’esterno una manifestazione di studenti e cittadini reclamava la riforma, Gloria Johnson, Justin Jones e Justin Pearson hanno inscenato la loro protesta dietro al podio parlamentare usando un megafono. Tanto è bastato alla maggioranza repubblicana per motivare con «mancanza di decoro» l’espulsione sommaria dei due parlamentari afroamericani (ma non la deputata bianca che si era unita alla loro azione). Il presidente Biden ha fortemente criticato l’espulsione come «contraria alle più elementari norme democratiche» e la vicepresidente Kamala Harris si è recata a Nashville in segno di solidarietà. I deputati hanno poi ripreso il loro posto in seguito all’ondata di indignazione nei loro distretti ma l’episodio ha segnato un ulteriore Rubicone nella deriva totalitaria dei Red States.

Per zelo in questo ambito nessuno batte il governatore italoamericano della Florida, Ron DeSantis che ha fatto della propria crociata «anti-woke» un progetto per rompere quello che la nuova destra considera che ritengono l’ingiusta «egemonia culturale» della sinistra, reclamando una sorta di par condicio sulla cultura e l’educazione. Le politiche con cui DeSantis si è posizionato come il più papabile dei possibili eredi di Trump, prendono dunque di mira l’istruzione pubblica col proposito di «rettificare» la memoria storica ed eliminare «disfattismi» e fonti di «divisione nazionale».

Nella fattispecie lo stop woke act, promulgato l’anno scorso, vieta l’insegnamento di «argomenti razziali» che possano mettere a «disagio» gli studenti bianchi discendenti degli schiavisti e vieta l’analisi critica del razzismo sistemico nella società americana. Nella revisione di DeSantis ed altri ideologhi di destra, il pensiero critico equivale all’antipatriottismo e l’insegnamento si trasforma in censura, specialmente sulla questione razziale, storica fonte di divisione sociale e oggi di recriminazione di una destra bianca in panico demografico. Le leggi oggi in vigore nei singoli stati fanno sì che un alunno di Tallahassee o Houston impari oggi una storia assai diversa dai corrispettivi di New York o Chicago, a partire dai libri di testo appositamente modificati dalla rimozione di fatti irritanti.

Gli Usa oggi sono un paese dove a Hollywood la principale industria culturale adotta strategie paritarie e formule «DEI» (diversity, equity and inclusion) che alcuni considerano maniacali. Allo stesso tempo le scuole in Utah hanno vietato «L’occhio più azzurro» della premio Nobel Toni Morrison perché «potenzialmente inquietante» per giovani menti.

Topolino
Una delle campagne di maggiore risalto di DeSantis è stata quella che lo ha contrapposto alla Disney. La corporation che gestisce il celebre parco di Orlando (e che ha una sostanziosa componente LGBTQ sia nel personale che nella clientela), aveva protestato le leggi anti-gay del governatore. DeSantis ha subito bollato l’azienda di Topolino una «woke corporation» e abolito le agevolazioni fiscali di cui il parco godeva da 50 anni. Un’escalation che potrebbe in teoria portare al trasloco di Disney World in lidi meno ostili ed ennesima istantanea di uno stato, ed un paese sull’orlo di pericolose divisioni.

È il terminale di una strategia populista che accomuna le nuove destre, scegliere un tema controverso e renderlo rovente: immigrazione, procreazione assistita, «gender», lo schwa o il reddito di cittadinanza … La scelta è ampia, adattabile alle condizioni specifiche e globalmente esportabile. Le conseguenze sono destinate a palesarsi ormai non più solo in America ma altrove in occidente. È la strada che rischia di imboccare anche l’ Europa dell’involuzione conservatrice, ad esempio, dove è sempre è più stridente la divergenza fra democrazia liberal-capitalista e la declinazione pseudo-democratica autoritaria ed integralista, dove serpeggia il revisionismo storico e circolano sempre più insistentemente i richiami ai valori tradizionali, la patria, la religione e l’identità nazionale.

Focus: l’aborto
La scorsa settimana un giudice federale in Texas ha decretato che il mifepristone, uno di due farmaci impiegati per l’interruzione della gravidanza, dovesse essere ritirata in tutto il paese. Nella motivazione della sentenza ha spiegato che – venti anni fa – la Food and Drug Administration (FDA), l’authority farmacologica nota per essere puntigliosa, non aveva usato una procedura sufficientemente precisa nell’autorizzare il farmaco. La sentenza contraddice insomma l’opinione degli scienziati oltreché l’ormai ventennale mole di dati empirici comprovanti l’assoluta sicurezza del farmaco. L’ordine emesso da un giudice nominato da Trump e già attivista pro-vita, non è infatti fondato nei fatti ma nell’ideologia, l’esempio più lampante di «moralizzazione» imposta attraverso un sistema giudiziario preso specificamente di mira dal movimento conservatore per imporre leggi ampiamente impopolari (almeno il 61% degli Americani è favorevole al diritto di scegliere di abortire).

Lo stesso giorno, nello stato liberal del Washington, un altro magistrato ha emesso un ordine diametralmente opposto imponendo che i farmaci rimanessero disponibili. Il paradosso ha cristallizzato l’esistenza negli Stati uniti di due contrapposte giurisprudenze. E conferma ancora una volta l’importanza strategica del progetto attuato dalla destra per blindare la corte suprema, dove il caso è destinato a venire aggiudicato. Il massimo tribunale promette di ricoprire un ruolo sempre più fondamentale per decidere questioni che la destra non può vincere alle urne – dall’aborto a decidere, potenzialmente, future elezioni presidenziali. Gli stati rossi ed il ramo giudiziario sono così diventati strumenti per veicolare istanze che nascono in ambienti di matrice immancabilmente religiosa (cattolica ed evangelica) in un paese dalla storica vocazione integralista. La destra radicalizzata di era trumpista (e post pandemica) ha traghettato queste istanze nel mainstream al punto di intravedere la possibilità di decostruire mezzo secolo di progresso su diritti ed uguaglianza, sul progetto cioè di una società più equa, ecumenica e multiculturale che elude ancora il paese. Un moto fondamentalmente antimoderno (e anti illuminista) che spiega una sentenza «da Mullah» come quella in Texas.