Renzi «ha frantumato il centrosinistra» e «inglobato pezzi di destra» ed ora costruisce «un grande centro che cerca di capitalizzare gli effetti della caduta del berlusconismo». Bersani lo critica duramente «salvo non trarne le conseguenze» rischiando così di «abbaiare alla luna». Dunque una sinistra «popolare, plurale, innovativa e di governo è una necessità «dell’Italia e dell’Europa». Ora «finalmente si parte»: parte «un nuovo inedito processo». Ai Frentani, al consiglio nazionale di Sel, ieri a Roma, Nichi Vendola rassicura i suoi; ma soprattutto tutti gli altri, quelli che guardano con malumore e apprensione alle future scelte del suo partito.

A dispetto degli stop and go delle ultime ore, la nuova creatura politica nascerà, giura lui. C’è già una road map. Prevede «un grande evento entro dicembre», ma prima – cioè presto, fra poche settimane – «un passo fondamentale, l’unificazione dei gruppi parlamentari». «Sel non frena», rivendica il suo presidente, «anzi si assume la responsabilità principale di avviare un percorso virtuoso per la costituzione di un nuovo soggetto della sinistra». E però – c’è un però – visto che «altre volte siamo partiti, ma siamo partiti male» – l’allusione è all’infelice esito del post-elezioni europee – «stavolta ci assicuriamo che il binario su cui ci mettiamo sia vivo, non morto», ovvero «stavolta affronteremo il tema della cultura politica che non è una discussione astratta ma determina la natura del soggetto, del cammino e della qualità degli interlocutori». Per farlo, si stilerà «una carta dei valori comuni e un programma minimo» a cui sono chiamate a contribuire «tutte le personalità e le realtà della sinistra». Evitando così «gli errori del passato, il minoritarismo, il meccanicismo e la riproposizione di una equazione che accompagna, da una decina di anni, i fallimentari tentativi di riaggregazione a sinistra», quelli basati sulle «vicinanze o lontananze dal Pd, come se, per battere la vocazione maggioritaria bastasse enunciare una sorta di predisposizione minoritaria».

Qui sta il nodo delle alleanze alle amministrative, l’oscuro oggetto che rischia di rompere il tavolo della ’cosa rossa’ riunitosi ripetutamente nelle scorse settimane, e che è arrivato a un passo dallo stallo. A quel tavolo si riuniscono anche partiti e associazioni (per esempio il Prc, L’Altra Europa con Tsipras, la civatiana Possibile) che vogliono «correre soli ovunque», nel senso fuori da qualsiasi alleanza con il Pd. Invece Sel, nel dispositivo finale votato quasi all’unanimità (due astenuti) propone un metodo di decisione diverso, non «meccanico»: «Non si tratta di stabilire regole astratte che da Roma calino sui territori in modo automatico», è necessario «dare continuità a quelle esperienze che nel governo concreto delle città hanno saputo guadagnare le caratteristiche di laboratori politici e amministrativi». Al contrario «ovunque non si verifichino queste condizioni», ci si impegnerà «nella costruzione di percorsi innovativi e autonomi».

Traduzione pratica: a Bologna e a Torino, per fare due esempi di due grandi città, la coalizione con il Pd potrebbe essere archiviata. A Cagliari invece giù le mani dal sindaco Massimo Zedda (Sel), che pure sarà confermato da tutto il centrosinistra; e a Milano, dove governa Pisapia, Sel farà le primarie con il Pd; almeno per ora.
E qui nascono i problemi, non pochi, fuori ma anche dentro Sel. Nel documento dell’unanimità le stesse parole – scelte infatti cum grano salis – possono contenere aspirazioni molto diverse. E pure dubbi. Per esempio sul caso di Milano: «Qualsiasi candidato vincesse le primarie potrebbe proseguire l’esperienza di Pisapia? E se vincesse Sala (il commissario di Expo, ndr), Sel resterebbe vincolata alla coalizione?», chiede Stefano Ciccone. Il tema si è posto già alle primarie liguri: dove Sel sostenne Cofferati dall’esterno della coalizione; salvo ritirarsi alla vittoria della renziana Lella Paita. Più in generale gli accordi non si fanno «né sempre né mai», come spiega il romano Giancarlo Torricelli, né sono condivisibili «le alleanze piombate di Civati», come spiega Fabio Mussi; ma partendo «dall’analisi concreta della situazione concreta» – la citazione è di Lenin – «oggi non si può che essere alternativi al Pd di Renzi», è la sua conclusione.

Non la pensa così però il senatore pugliese Dario Stefàno, unica voce radicalmente contraria alla nascita di una ’cosa rossa’ (c’è anche quella scettica del senatore Luciano Uras che annuncia la proposta di una federazione autonoma sarda). Per Stefàno semplicemente «non esiste uno spazio per un quarto polo». Annuncia: «Una Rifondazione 2.0 (qui sta per: un soggetto minoritario, ndr) non sarà il mio campo», in tutta Italia «esiste uno spazio per il rilancio del centrosinistra locale dove correggere la rotta del governo Renzi». Certo nella ’cosa rossa’ il rischio «di costruire una ridotta complementare al renzismo» c’è, avverte Franco Giordano. Quel rischio «non si combatte nei tavoli», replica Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel, il più lanciato in direzione ’cosa rossa’, «ma fra la gente, nelle assemblee in cui tutti ci chiedono di partire anziché stare fermi in un tempo sospeso che non è più e non è ancora».

Ma proprio perché «battere il governo Renzi è l’obiettivo di oggi e di domani, non si può lasciare il riformismo tutto nel campo del Pd», dice Massimiliano Smeriglio, vicepresidente del Lazio. Ed è un altro punto dirimente per Sel: la nuova forza dovrà essere l’approdo naturale per militanti e dirigenti in caduta libera dal partito della nazione. Per questo Sel (con Stefano Fassina ed altri ex Pd) punta anche sui nuovi gruppi parlamentari che «potranno fare da calamita», spiega Arturo Scotto (Joseph Stiglitz sarà il consulente economico). Gli ex Pd hanno combattuto la vocazione maggioritaria ma ora temono quella «minoritaria» della sinistra radicale. Alcuni persino rivendicano con orgoglio le coalizioni dell’epoca di Prodi: indigeste però all’altra metà della ’cosa rossa’.