Risalgono all’ultimo scorcio del XII secolo ed agli inizi del XIII le prime notizie che riportano di un instancabile nuotatore segnalato nelle acque del Mediterraneo, e specialmente nello Stretto di Messina. Sono riferite da due autori inglesi, Walter Map e Gervasio de Tilbury, a testimonianza d’una fama ch’era, già allora, assai estesa. Ma un filato racconto di quelle mirabili imprese marine lo si trova nella Chronica di Salimbene de Adam, là dove narra avvenimenti dell’anno 1250, all’epoca di Federico II di Svevia, e ci dice del prodigioso personaggio e delle sue doti eccezionali, tali che gli consentono di vivere in mare, giacché, come poi si legge in una cronaca trecentesca, “a lungo non poteva stare fuor d’acqua”.

Un talento che gli permette di scendere nelle profondità inesplorate, di osservare i fondali non solo ricchi di inestimabili tesori, ma, nella loro primordiale purezza, gli permette di lambire i segreti più sacri degli abissi, dove si conserva forse la primigenia, celata pulsazione del mondo vivente. È quanto ci illustrano le pagine del Reductorium morale del benedettino Pierre Bersuire (1290-1362), amico ad Avignone di Francesco Petrarca. Dopo le frequenti oscillazioni che il nome del nostro eroe ha subito lungo tre secoli, sarà Giovanni Pontano (1429-1503) ad accreditare nell’Urania quello di Cola Pesce. Nicola, perché, fin dal suo apparire, la figura dell’uomo acquatico fu legata a quella di San Nicola (e d’un tratto della sua agiografia, quella del viaggio per mare da Mira, appare forse come la versione laica), santo tutelare, tra l’altro, dei naviganti, che difende dalle presenze demoniche che abitano i mari, e loro protettore nell’emergenza delle tempeste.

E non per caso una incombenza alla quale Cola Pesce attendeva con scrupolo era quella di avvertire i marinai d’una burrasca in arrivo: molti, scampati ad un sicuro naufragio, raccontavano come egli fosse emerso tra i flutti a dar loro voce dell’imminente pericolo, per modo che deviassero per tempo dalla rotta tenuta. “Una delle leggende, che più mi colpirono nei miei primi anni, scrive Benedetto Croce, fu quella di Niccolò Pesce: del fanciullo che amava starsene sempre in mare, facendo gridare sua madre, la quale, un giorno, nel calore dello sdegno gli gettò la maledizione, che “potesse diventar pesce”; e da pesce o quasi pesce egli visse da allora, capace di trattenersi ore e giorni immerso nelle acque, come nel suo proprio elemento, senza bisogno di risalire a galla per respirare”.

Se, per un verso, la leggenda avvince con i racconti delle prodezze di Cola nuotatore, per un altro ribadisce lo stretto rapporto di Cola con la gente del mare, pescatori e naviganti, fino a configurare, e ad incarnare, quasi, l’universo culturale loro e le loro esperienze. Ne fa fede una composizione poetica spagnola del 1608, a suo tempo segnalata da Croce, ed in anni recenti dottamente studiata e tradotta con finezza da Maria D’Agostino, dal titolo Cronaca di come il Pesce Nicola apparve di nuovo in mare, e parlò con molti marinai in differenti luoghi. Delle grandi meraviglie che raccontò di importanti segreti per la navigazione. Vi si legge: “sono uomo e son Cristiano/e la santa legge osservo./Il Pesce Nicola sono,/tanto noto in altri tempi,/che del vostro navigare/carta e regole vi dette”.

E la Cronaca ci rammenta come Cola “disse cose straordinarie/dei segreti più profondi/e le rotte perigliose/rivelò ai naviganti./Questi scrissero i segreti/del navigare importanti,/che è la carta che chiamiamo del perpetuo navigare”, del marear insaciable, come recita il testo. Croce ci dice che “a percorrere in mare lunghe distanze rapidamente Niccolò Pesce usava l’astuzia di lasciarsi ingoiare da taluno degli enormi pesci che gli erano familiari e viaggiare nel loro corpo, finché, giunto dove bramava, con un coltellaccio che aveva sempre seco, tagliava il ventre del pesce e usciva libero nelle acque, a compiere le sue indagini”. Ora fattosi così quasi pesce, ora nella vigoria del suo corpo d’uomo, Cola trascorre le acque non mai sazio, insaciable, e bene quel suo fluire inesausto nella corrente che, ad un tempo, lo sostiene e lo mena innanzi, ci si presenta come compiuta metafora del corso inarrestabile della vita di ciascuno.