Qualcuno ricorda ancora i musei etnografici? I musei della civiltà contadina, i musei della cultura materiale, i musei delle tradizioni popolari? Può darsi, ma c’è ogni motivo per dubitarne. Negletti, capitozzati, restylizzati, inaccessibili o chiusi del tutto, quando non additati al pubblico ludibrio quale sentina di assenteismo e di incuria, come nel caso recente del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, assurto all’onore delle cronache (gennaio 2016) per una vicenda di timbrature, questo genere di musei sembra essere sceso all’ultimo posto nella considerazione del pubblico, e anche in quella degli amministratori che dovrebbero in qualche modo esserne garanti. Il perché questo debba avvenire proprio nell’epoca del chilometro zero, dei saperi e sapori, dell’ideologia territorialista ormai dilagante in ogni dove, rappresenta uno dei grandi insoluti paradossi della nostra epoca post-postmoderna, che vede in ogni dove i figli cadetti – ecomusei, fattorie didattiche, percorsi degli antichi mestieri, sentieri del gusto… – lasciarsi dietro le spalle come tanti edipi un po’ spietati i padri nobili agonizzanti, i vecchi musei del mondo contadino, senza più soldi, senza personale, senza un minimo di sensibilità strutturata che li assista, e senza neppure un albo, un catalogo minimamente affidabile, un portale internet, una società professionale o una rete nazionale che ne possa rappresentare le istanze concrete.
In questo quadro desolante, reso ancora più avvilente dal recente scandalo romano – rilevate 9 irregolarità nella timbratura delle presenze, roba da KGB! – ogni segnale positivo non può non essere raccolto con interesse, sia esso il canto del cigno di un settore ormai in conclamato disarmo, o sia esso invece il primo segnale di una tardiva eppur sempre provvida inversione di tendenza. Soprattutto, se questo segnale giunge da una delle istituzioni più accreditate del settore etnografico, il vecchio «museo del costume» di Nuoro – così è noto nel vernacolo locale, ma attenzione: il nome vero è «Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde» – fiore all’occhiello dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico (ISRE), fondato nel 1956 su proposta di Paolo Toschi, forse l’ultimo dei nostri folkloristi di grande scuola, e da sempre depositario degli straordinari tesori, di tessuti, di gioielli, di ceramiche, di canestri, di tutto, con cui l’isola si è affacciata alla soglia della modernità: un museo che si presenta, in questi tempi di magra, con un nuovo e ricco allestimento testé inaugurato (19 dicembre 2015), che ne completa e ne rinnova interamente il percorso di visita.
Nato come «museo del costume», nell’alveo stesso di un folklorismo regional-popolare post-deleddiano oggi quasi del tutto sbiadito, il Museo, ospitato nei diversi corpi di un villaggio sardo immaginario appositamente costruito in un luogo suggestivo, ai piedi del colle di Sant’Onofrio alla periferia occidentale di Nuoro, si è trasformato negli anni in un vero e proprio centro di cultura antropologica mediterranea e anzi planetaria piuttosto che sarda, sul quale sono allunati negli anni, ospiti del festival del cinema e di tante altre iniziative, i più bei nomi del gotha internazionale dell’antropologia, visiva e non solo, da Jean Rouch ad Asen Balicki a David MacDougall, oltre ai nostri Vittorio De Seta, Fiorenzo Serra, Diego Carpitella, e alla grande scuola sarda dell’antropologia accademica, con i suoi Cirese, Angioni, Delitala e tanti altri. Anfitrione instancabile e demiurgo di questa trasformazione del vecchio «museo del costume» in luogo di cultura a tutto campo, il direttore uscente Paolo Piquereddu, autore del progetto del nuovo allestimento che ne corona degnamente, all’atto di un pensionamento un po’ troppo repentino, l’impegno più che trentennale.
Ecco quindi il nuovo percorso, che fin dalle sue prime mosse dichiara il debito della materia di studio con la scienza etnografica che l’ha posto in essere, con la fotografia, con il cinema, con l’antropologia culturale, i cui autori, per via di fotografie – con l’opera di Andreas Bentzon, Pablo Volta, Wolfgang Suschitzky, Jean Dieuzaide, Franco Pinna –, di filmati documentari e di sapienti citazioni testuali, come in ogni anamnesi che si rispetti, vengono via via resi palesi. Scrive ad esempio benissimo Giulio Angioni, a proposito del concreto contesto semantico della società pastorale (1989): «La casa è più femminile del paese, il monte più maschile della campagna. Il monte è il massimo di selvatico, la casa il massimo di umano. E la donna in casa è quasi tutto, come se la casa fosse un’estensione del suo corpo di madre e di moglie, a volte di figlia o di sorella che ‘ha sulle spalle’ la casa: padrona di casa. Fin dove arriva la donna, e specialmente nel caso del pastore, non è proprio campagna, è spazio domestico e sicuro, o prolungamento del domestico. Tra campagna e paese pendola il contadino con oscillazioni giornaliere, e il pastore con oscillazioni spesso molto più lunghe, anche di settimane, e di più mesi se transuma. La donna no. La donna dovrebbe restare in casa, perché lei è certezza del cibo, del riposo, della pulizia, del ripristino giornaliero di ciò che giornalmente è soggetto a decadere; è lei garante della prole, custode degli affetti. Solo dove arriva la donna in Sardegna è casa, forse più nettamente che altrove». È lo stesso scenario su cui Grazia Deledda ebbe a tessere le sue trame, elementari e universali, da tragedia greca: e infatti la casa natale della scrittrice, magistralmente riallestita sempre a cura dell’ISRE, sorge non molto lontano di qui.
Così, il cuore centrale del museo – che resta certamente, e a pieno buon diritto, un «museo del costume» – viene preceduto da una lunga galleria espositiva che ne ricolloca il merito all’interno di una società, di una storia, e di una concreta vicenda di ricerca, di incontro culturale, secondo un percorso lineare in cui si distingue fin da subito l’indiscutibile valore didattico. Mentre i tesori del museo – i pani simbolici decorati, miracolosamente conservati da cinquant’anni e passa, gli ori e gli argenti, i tessuti, e finalmente i costumi, mantenuti come nuovi e allestiti con rispetto e perizia assolute,– sono esposti in un crescendo scenografico culminante in alcuni grandi diorami che ripropongono l’emozione delle feste campestri, dei grandi pellegrinaggi al santuario, con i loro accampamenti precari di fedeli, raccontati nella stessa dimensione onirica, esaltata e apocalittica di cui ci ha reso edotti la stessa Deledda nei suoi capolavori da Nobel.
E proprio qui, al termine del percorso, la ricchezza dei riferimenti iconografici – stampe, dipinti, disegni, fotografie – e dell’apparato didascalico e documentario consentono al visitatore di sfuggire alla tirannia di un costume isolano percepito nei termini di un’icona etnologica muta e imperscrutabile, ma sembrano indicare la strada, pur ardua, per una sua decodifica antropologica in termini di altrettanti processi: quelli stessi degli scambi matrimoniali, del minuto stratificarsi interno di società paesane tenute in tensione costante dalla tirannia del bisogno estremo, dell’influsso lontano – ma neanche troppo – di tanti altri mondi, aragonese o catalano come a vario titolo italico, romano antico, peninsulare o subalpino.
Ecco così riproporsi per intero, nelle sale del Museo, il grande enigma antropologico di quest’isola di pastori che ignorano il mare, al crocevia di tutti i Kulturkreise del Meditteraneo nordoccidentale, eppure sempre rigorosamente tetragona, assorta nel proprio destino come un piccolo pianeta, e che del pianeta maggiore, ormai fattosi villaggio globale, sembra poter preconizzare in sintesi la condizione ultima, quella di isola persa nello spazio, proprio come essa stessa, con il suo carico antropoide ambiguo e dolente, lo è nel mare.
Chi scrive ha fatto in tempo a incrociare, anni addietro, lo sguardo buono di Giovanni Lilliu, il piccolo grande archeologo dell’età nuragica cui l’auditorium del Museo è oggi dedicato. Per me, nel ricordo, i suoi occhi velati di malinconia, la sua semplicità, il suo dotto e un po’ rauco sussurrìo, sembrano essere tutt’uno con la consapevolezza del mistero sardo: che è però a ben guardare, forse in scala appena ridotta, il mistero stesso dell’uomo.
Chi ama la Sardegna, e chi ha imparato con il tempo a volerle bene, il che può anche non essere la cosa più facile del mondo, troverà un museo che palpita di questi sentimenti, e li trasmette a viva forza, con i tesori parlanti di un’età di mezzo – tessuti, filigrane, ricami, pani, amuleti misteriosi… – che dalle vetrine del Museo lanciano ancora oggi, da un passato prossimo e forse mai del tutto trascorso, il loro incontenibile messaggio di sognante umanità.