Lo storico accordo sul nucleare iraniano è dietro l’angolo e irraggiungibile allo stesso tempo. Anche la scadenza di oggi – stabilita nei colloqui del 2 aprile a Losanna dove è stata raggiunta un’intesa preliminare su riduzione delle centrifughe, trasformazione delle centrali nucleari in centri di ricerca in cambio della cancellazione delle sanzioni – potrebbe slittare di qualche giorno.

«Per uscire dallo stallo, la firma formale dell’accordo potrebbe essere successiva alla revisione e approvazione del Congresso Usa», spiega Trita Parsi, direttore del Consiglio nazionale irano-americano, think tank favorevole all’intesa. «A quel punto ci vorranno trenta giorni per l’approvazione definitiva, se l’intesa venisse raggiunta entro il 10 luglio e sessanta se si andasse oltre», continua Parsi. Ma anche il parlamento iraniano (Majlis) potrebbe insistere sul suo diritto a visionare il testo finale.

Insomma, si va avanti a oltranza. Ma prima che Tehran e Washington firmino un accordo che aprirebbe la strada a nuovi negoziati che promuoverebbero la Repubblica islamica a player centrale (lo è già dopo la guerra in Iraq del 2003) per la soluzione dei principali conflitti che dilaniano il Medio oriente (Siria, Iraq, Afghanistan), prima che l’Iran inizi a distruggere le sue centrifughe fino a portarle da 10 mila ad un massimo di 6 mila (in dieci anni), punto chiave dell’intesa preliminare, potrebbero passare altri sei mesi. Questo porterebbe alla cancellazione delle sanzioni internazionali contro Tehran non prima della fine dell’anno.

L’accordo che emerge dai colloqui di Vienna prevede anche che per 15 anni Tehran arricchirà l’uranio solo fino al 3,75% (a fini energetici, medici e di ricerca). Lo scopo è impedire all’Iran di produrre un’arma atomica in meno di un anno (breakout). Le centrali di Fordo e Arak saranno trasformate da siti per l’arricchimento in centri di ricerca. Contestualmente, Usa e Ue dovranno cancellare quasi tutte le sanzioni economiche contro Tehran. Anche il Consiglio di sicurezza Onu dovrà approvare l’accordo, revocare tutte le sanzioni e mantenere alcune restrizioni per un periodo concordato.

Ormai da due anni, con la svolta moderata di Hassan Rohani in Iran e la bozza di intesa del novembre 2013, quando i tempi stringono e i P5+1 (paesi del Consiglio di sicurezza Onu e Germania) sembrano vicini ad un accordo, è sempre tempo di ulteriori riflessioni, ripensamenti e fibrillazioni.
E così il capo negoziatore iraniano, Javad Zarif è volato a Tehran per consultazioni con la guida suprema Ali Khamenei. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov avrà un colloquio bilaterale con il segretario di Stato, John Kerry (mentre non si fermano gli scambi epistolari tra Obama e Khamenei).

Le principali resistenze sono tra i Repubblicani a stelle e strisce (che si sono accodati alle dichiarazioni escatologiche contro Tehran del governo israeliano) e tra i leader sauditi. L’ayatollah Khamenei che ha l’ultima parola sull’intesa ha identificato sette «linee rosse» invalicabili per la fine della crisi che dura da oltre dieci anni. La guida suprema si è espressa contro scadenze di lungo periodo, per la continuazione del programma di ricerca e sviluppo, la rimozione immediata delle sanzioni bancarie e tempi precisi e stabiliti per la conclusione dell’intesa. Si è detto poi contrario a qualsiasi ispezione non convenzionale o interrogatorio a militari e scienziati.

L’intesa con l’ex «nemico» Usa spacca la società iraniana. La Campagna internazionale per i diritti umani ha condotto uno studio sulle opinioni degli iraniani in merito ai negoziati. Se la maggioranza si è espressa a favore dell’intesa, sono stati aggiunti timore, scetticismo, dubbi e incertezza sull’impatto che avrebbe in politica interna. Secondo un sondaggio condotto dall’Università di Tehran, la maggioranza degli intervistati non ha dubbi che il programma nucleare iraniano è solo a scopo pacifico. Che l’intesa avrà effetti in politica interna rafforzando o indebolendo la leadership moderata al potere a seconda dei temi, lo dimostrano alcune sentenze delle ultime settimane della magistratura iraniana. Da una parte l’uomo forte, il tecnocrate Hashemi Rafsanjani ha incassato la condanna a dieci anni del figlio Mehdi con accuse di corruzione. Dall’altra, gli ultra-conservatori, contrari all’intesa, hanno subito l’arresto di Hamid Baghaei, ex vice presidente di Ahmadinejad, con accuse di frode.