Il 2016 sarà l’anno dell’inizio della fine dell’Unione europea, segnerà il punto di non ritorno verso un declino definitivo del progetto nato nel dopoguerra? Jean-Claude Juncker, il capitano di lungo corso che sembra muoversi come un pesce nelle acque sempre più torbide della costruzione comunitaria, sarà suo malgrado il becchino di quello che è stato un sogno di una generazione che si prepara a lasciare la mano?

Il 2016 sarà un “nuovo anno difficile”, ha ammesso ieri il presidente della Commissione nella conferenza stampa di inizio anno. Tutti i segnali sono in rosso. L’Europa si divide, il sud si allontana dal nord, l’est dall’ovest. Il ritorno delle nazioni mina la costruzione comunitaria.

La Gran Bretagna si allontana, minaccia il Brexit con il referendum che dovrebbe svolgersi in primavera. L’ “orbanizzazione” dell’Europa è in corso. La destra autoritaria è al potere in Ungheria e Polonia, fa parte dei governi in Belgio, Finlandia, Danimarca (dove ormai si spogliano i rifugiati con la scusa di contribuire ai costi, modello seguito anche dalla Svizzera). Partiti di estrema destra mietono consensi in Francia, Italia, Olanda, persino Svezia.

Per il momento, solo i paesi che hanno un ricordo più fresco delle dittature, Grecia, Spagna e Portogallo, sembrano tenere, mentre anche in Germania si aprono brecce inquietanti, dopo i fatti di Colonia. La Commissione chiede dei conti a Varsavia, cerca un compromesso con Londra.

Juncker afferma che crescita e occupazione restano le priorità: ma l’economia non riparte, la disoccupazione resta un dramma nella maggior parte dei paesi, salvo qualche eccezione, anche il modesto piano di rilancio di 315 miliardi arranca, anche se il presidente della Commissione sembra soddisfarsi del fatto che, dopo tre mesi di vita, siano stati “mobiliti” 50 miliardi in 22 stati.

La disoccupazione giovanile è esplosa, soprattutto negli stati del sud europeo, mentre il precariato dilaga dappertutto e il fenomeno dei working poors tocca anche paesi prosperi, come la Germania. La zona euro, per il momento, si è salvata dalla crisi greca, ma Atene non è uscita dal marasma.

C’è stato, certo, un movimento verso un’integrazione accelerata dei paesi euro (Unione bancaria), ma la Francia rifiuta ogni revisione dei Trattati e lo scambio di mezzi insulti con l’Italia rivela un’insofferenza reciproca crescente tra Bruxelles e alcune capitali.

La libera circolazione è sotto attacco da più parti. In reazione all’arrivo dei rifugiati, in Europa sono cresciuti i muri.

Schengen è ormai sospeso e c’è chi pensa a un mini-Schengen per salvare il salvabile (con l’Italia tra gli esclusi).

Il piano di reinstallazione dei rifugiati proposto dalla Commissione, accettato dal Consiglio, è stato di fatto rifiutato: solo 272 persone sono state ricollocate sulle 160mila previste e c’è ora una “disponibilità” di soli 4237 posti. Juncker accusa: “la Commissione ha fatto tutto il possibile, ma alcuni paesi membri sembrano avere problemi per mettere in opera decisioni prese dal Consiglio dei ministri Ue”. Ma difende la libera circolazione, uno dei pilastri della costruzione comunitaria, con argomenti triviali: “ogni ora di attesa di un camion a una frontiera interna costa 55 euro”.

Londra vuole mettere dei limiti all’accesso al welfare per i cittadini comunitari. L’est si barrica, rifiuta la solidarietà sui rifugiati.

Nessuno si fa carico delle conseguenze di interventi che hanno fomentato questa crisi (Francia e Gran Bretagna, ma anche l’est europeo, che aveva seguito Bush nella guerra in Iraq nel 2003).

Al mosaico europeo non sarà risparmiato nulla quest’anno: ad aprile c’è anche un referendum in Olanda sul trattato Ue-Ucraina, all’origine della tensione con la Russia.