Giovanni Lanfranco, “Venere che suona l’arpa” (“Allegoria della musica”), Roma, Palazzo Barberini

 

E’ a volte sorprendente quanto la storia dell’arte riesca ad indovinare quel che i documenti già sanno. Qualche volta è accaduto anche a me e mi scuso per l’imperdonabile vanità. Cito Leonardo Sciascia che esprime meglio di me quel che vorrei dire: «i documenti aiutano a rendere probante l’immaginazione». Quando mi capitò nel 1970 di fare una lunga introduzione al volume di Goffredo Lizzani sul mobile romano (confusa da alcuni lettori con l’intero libro) scrissi «l’Arpa Barberini, uno dei più begli strumenti musicali conosciuti, mostra indubbi punti di contatto con Bernini ed è cosa più antica di quanto comunemente si ritiene. Si vede raffigurata, infatti, in un dipinto del Lanfranco; la cronologia di questo quadro – un ovvio post quem dell’arpa – è stata discussa ma a opinione di Eric Schleier, che prepara una monografia sul Lanfranco, esso deve collocarsi agli inizi degli anni trenta (del Seicento ndr) e tale datazione ci trova pienamente consenzienti per quel che concerne il mobile».
Così pensavo cinquant’anni fa. In un articolo del 1991 Franca Trinchieri Camiz spiegò che il quadro era stato richiesto al Lanfranco da un famoso cantore, musicista e compositore, Marco Marazzoli (1602 ca.-’62). Marazzoli era al servizio di uno dei nipoti di Urbano VIII, il Cardinal Antonio, che assieme al fratello Francesco, cardinale anche lui, teneva le chiavi del cuore del pontefice. Alcuni studiosi dei tempi nostri come Frederick Hammond, specialista nella storia della musica del Seicento a Roma, collegarono lo strumento alla committenza del Cardinale Antonio, ciò che indica la strada da seguire per meglio capire l’origine di questa bellissima opera d’arte della quale pian piano si scopre l’intera genesi. A ciò seguirono altri specialisti come Ursula Verena Fischer Pace che scoprì nel Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi un foglio che raffigura con l’arpa con fedeltà e che attribuì ad un noto architetto e falegname, Giovanni Battista Soria (ma scrisse che io avevo datato lo strumento al secondo Seicento, cosa che non asserii mai, come si è visto).
Il terreno artistico di cui si parla era assai fertile. Marazzoli era uno dei più amati musicisti del momento e non solo a Roma: ebbe grandi successi a Ferrara e a Parigi. D’altra parte alla morte di Urbano VIII i Barberini si trasferirono in Francia dove godettero la simpatia del re e l’aiuto di Giulio Mazzarino. Calmate le acque tornarono in Italia e ebbero la protezione e l’amicizia di Alessandro VII Chigi. Non sarà da meno il papa successivo, Clemente IX (Rospigliosi, 1667-’69), che era stato autore di libretti musicali per alcune delle più argute opere dell’epoca.
Gli studi sull’argomento seguono ancora in fervore ed è da poco che si possono considerare quasi chiusi con uno scritto di Chiara Granata in cui si ritrovano i dati anagrafici dell’Arpa Barberini. Tutto è restato a Roma: l’Arpa nel Museo Nazionale degli Strumenti Musicali; il famoso quadro di Lanfranco con Venere che suona l’arpa nella Galleria Nazionale di Palazzo Barberini e i documenti nell’Archivio Barberini della Biblioteca Apostolica Vaticana (il disegno invece è agli Uffizi).
Quel che la Granata ha identificato attraverso nuovi documenti è il nome di Geronimo Acciari, che fabbrica la parte strumentale dell’arpa, e quello dell’intagliatore, Giovanni Tubi, che la scolpisce nel 1633. Committente dell’opera fu il Cardinale Antonio Barberini che la fece eseguire non per sé ma per Marazzoli, nelle cui mani lo strumento rimase lungo tutta la vita. Solo alla morte del musicista nel 1662 lo strumento tornò in possesso del cardinale. Il porporato morì nel 1771 e l’arpa passò al fratello Francesco e poi al nuovo capofamiglia, il Principe Don Maffeo, che appose il proprio stemma al posto di quello del primo committente, sostituendo il cappello cardinalizio con una corona e aggiungendo il Toson d’Oro che gli era stato conferito.
Varrebbe la pena spiegare che la discendenza di colui che aveva intagliato meravigliosamente l’arpa fu famosa in Francia ed è menzionata in varie opere specialistiche (H. Vial, A. Marcel, A. Girodie, Les Artistes Décorateurs du Bois, tome II, Parigi, 1922). Il nostro Tubi, romano, probabilmente partì per la Francia coi Barberini e forse rimase con il cardinale Antonio che ci stette più a lungo degli altri, fino al 1653. Tubi aveva già un figlio, Baptiste, naturalizzato francese nel 1672 e di cui si ricordano opere lignee per la casa reale.