«In confronto a quello che leggo oggi la nostra era una corruzione da goliardi. Io scoprii che un imprenditore pagava ad alcuni assessori le prostitute cecoslovacche. Li portava a Praga in albergo all inclusive. Offriva week end. Un lunedì mi arrivò un assessore tutto abbronzato in pieno inverno. ‘Sei andato a sciare?’. ‘No’, mi disse, ‘ho fatto un viaggetto in Kenya’». Diego Novelli, classe ’31, presidente onorario dell’Anpi torinese, una lunga carriera da giornalista dall’Unità degli anni 50 alla al settimanale Avvenimenti negli anni 80, oggi dirige il quotidiano online Nuovasocietà. Ma Novelli è soprattutto il mitico sindaco comunista di Torino nel decennio 75-85. Quello che nel 1983, dieci anni prima dell’esplosione di Tangentopoli, di fronte a un sospetto di corruzione nella sua giunta mette tutto in mano alla procura. Finì con le condanne. Ma da lì per Novelli la vita politica non fu facile.

Come hai scoperto che alcuni tuoi assessori erano corrotti?

Era venuto da me un imprenditore che mi denunciava dei fatti illeciti sugli appalti però senza fare i nomi. La terza volta che viene gli dico: ingegnere’, era un ingegnere, si chiamava Di Leo, ‘o lei fa i nomi o io la denuncio per calunnia’. Lui risponde: ‘non mi rovini, ho famiglia’. ‘Lei è venuto a dirmi che io sono quello del rigore ma non si fida di me. Si fida dei magistrati?’. Mi faccio chiamare il procuratore della Repubblica e gli dico: ‘Le mando questo signore, non me lo spaventi e faccia quello che crede’. Poi però, per paura che l’ingegnere uscito dal municipio cambiasse idea, gli metto appresso un vigile della mia scorta, si chiamava Barbero, che lo accompagni in procura. Dopo tre mesi sono arrivati gli arresti.

Cosa era successo?

Scoprirono un giro di corruzione miserabile. Avevamo un appalto da centinaia di milioni di lire, allora una cifra da capogiro, per l’informatizzazione di tutto il comune, anagrafe, bilancio, servizi sociali. A pagare tangenti e viaggi di piacere era una ditta di informatica americana. Fu arrestato il mio vicesindaco socialista. Alla federazione del Psi fecero letteralmente piazza pulita: tesoriere, il segretario, alcuni assessori. Beccarono anche due dei nostri, due comunisti che si erano limitati a farsi pagare viaggi di piacere. Scoprii che nella lista degli allegri viaggiatori c’era anche il mio nome, ma con me non ci avevano neanche provato, al mio posto avevano offerto il week end a un democristiano.

Ma qui iniziano i tuoi problemi politici.

Craxi venne a Torino e chiese in piazza la mia testa. Disse: ‘Novelli non può più fare il sindaco, non gode più della fiducia del Psi’.

Il Pci, il tuo partito, come reagì?

Qualcuno si è schierato subito con me, come l’allora segretario di federazione Piero Fassino. Craxi mandò alla federazione torinese del Psi un commissario straordinario (fu scelto Giuliano Amato, ndr), fui accusato di non aver «risolto politicamente la questione». I socialisti uscirono dalla giunta, io mi dimisi e formammo una giunta monocolore comunista con qualche indipendente. I socialisti in teoria ci davano l’appoggio esterno, ma mi fecero venire l’esaurimento: ogni giorno non sapevo neanche se in consiglio avevo il numero legale. Siamo andati avanti fino a novembre ‘84 quando hanno convinto, diciamo così, due compagni comunisti di passare al gruppo socialista. Il 25 gennaio dell’85, a tre mesi dalle elezioni, ci fu un ribaltone. E venne eletto un sindaco socialista sostenuto da una giunta pentapartito. Così quello che aveva chiesto Craxi in piazza nel marzo dell’83, e cioè la mia testa, si era avverato.

Poi però il Pci torinese alle elezioni dell’85 ti ricandidò.

Ma il Pci era rimasto isolato, fummo battuti dal pentapartito.

E dal Pci nazionale quali segnali arrivarono?

Al congresso d Milano, che si svolgeva proprio in quei giorni, intervenni e spiegai che l’iniziativa era partita dal sindaco quindi non dovevamo temere nulla: noi ci siamo sempre comportati con rigore. Quando la commissione ristretta del comitato centrale discusse i nomi della direzione del partito, nell’elenco c’era il mio nome. Ma quel nome fu tolto.

Chi lo tolse?

E’ passato molto tempo, lasciamo stare. I protagonisti si saranno emendati. Partì lancia in resta il segretario regionale dell’Emilia che diceva: attenzione, noi abbiamo tutte le giunte con i socialisti, se ora mettiamo Novelli in direzione sembra che lo abbiamo premiato perché ha fatto questa cosa contro il Psi. Ricordo che Nilde Jotti dalla tribuna del comitato centrale si rivolse a me con queste parole: compagno Novelli, quando si hanno incarichi così delicati bisogna saper cantare e portare la croce. Molti anni dopo, leggendo il libro di Luciano Barca, Cronache dall’interno del vertice del Pci (Rubettino, 2005, ndr) ho scoperto com’è andata. Barca scrive così, raccontando del congresso: «La rivelazione di Novelli mette subito allo scoperto che nella Direzione del Pci convivono ormai due posizioni opposte: c’è chi considera il sindaco un giusto che ha fatto il suo dovere e chi, come Macaluso, un “povero cretino moralista”». Barca racconta anche che poi in commissione elettorale sulla proposta di portare me in direzione, sostenuta da Minucci, Pecchioli e Pajetta e con il favore di Berlinguer, «la proposta è respinta sotto l’attacco della destra» (si tratta ovviamente della destra del Pci, ndr).

Ma come può succedere che in un partito non ci si renda conto che il proprio compagno è un mascalzone?

Non so spiegarmelo. Un partito deve sempre tenere alta l’attenzione. Io avvertii i primi sintomi di inquinamento all’inizio degli anni 80. A Torino furono le prime avvisaglie di Tangentopoli, che però arrivò molto dopo. Ma nessuno poteva cadere dal pero: il primo segnale clamoroso lo dette proprio Berlinguer, nel luglio dell’81, nella famosa intervista a Eugenio Scalfari sulla questione morale. Dove dice: «I partiti hanno degenerato». Dice ‘i partiti’, non ‘gli altri partiti’. Era chiaro il segnale di allarme che stava lanciando era anche verso il suo Pci.