Mentre affiora sempre più evidente la tentazione di contaminare le forme del romanzo e della short story nel tentativo di giungere a una ipotetica sintesi tra coralità e dettaglio, visione totalizzante e introspezione su un microcosmo singolo, ultimamente esperimenti ancora più radicali collocano il nesso che ricollega tra loro le storie non nella presenza di una ambientazione comune o di personaggi ricorrenti, bensì in una unità tematico-strutturale che non necessariamente si rivela subito al lettore.

Ne è un esempio Tutto quello che è un uomo, quarto libro dello scrittore anglo-ungherese quarantatreenne David Szalay, proposto da Adelphi nella fluente traduzione di Anna Rusconi (pp. 402, euro  22,00). Nove segmenti narrativi che coprono quasi per intero l’arco di un anno (da aprile a dicembre) aprono altrettanti scorci sulle esistenze di nove personaggi maschili, ordinati cronologicamente dai diciassette ai settantatre anni e infilzati come farfalle su uno spillo dallo sguardo caustico dell’autore.

Punti di un unico arco
Sullo sfondo, una Europa ormai percepita come spazio sostanzialmente indifferenziato, stante la globalizzazione ormai avanzata persino nei suoi territori più orientali e la frenetica mobilità alimentata dai voli low cost. Ogni frammento ha inizio in medias res, nella luce abbagliante di un’istantanea, nell’universo autosufficiente di una situazione narrativa che, di regola, si esaurisce nel giro di una quarantina di pagine, senza che nel frattempo intervengano elementi apprezzabili di scioglimento a scaricare la tensione accumulata.

Non è un’immagine consolante, né tantomeno lusinghiera, quella che Szalay restituisce del maschio europeo o, meglio, del campione statistico sorprendentemente omogeneo da lui selezionato. Il fatto che i nove protagonisti siano tutti bianchi e altrettanto rigorosamente eterosessuali (a parte, forse, Tony, il malinconico settantatreenne al centro del frammento conclusivo) fa pensare che l’autore nel delinearli si sia ispirato in realtà a un unico carattere, poi virtuosisticamente scomposto in una gamma di varianti: d’altronde, in un’intervista rilasciata a «The Paris Review» Szalay stesso ha iscritto i suoi personaggi all’interno di una sola traiettoria, definendoli «punti su un arco, più che archi in sé e per sé».

Ad accomunarli è innanzitutto una sorta di inadeguatezza emotiva alle sfide e alla contraddizioni che la vita, più fantasiosa di loro, impone via via. È una irresolutezza stupefatta, questa, che si traduce in meste ritirate, nel ripiegamento strategico in situazioni di comodo, ben lungi – tuttavia – dal soddisfare i personaggi.
Gli uomini di Szalay sono talmente incapaci di dare, né sono più in grado di prendere; esemplare in questo senso è la vicenda di James, l’agente immobiliare protagonista del sesto frammento che, sullo sfondo di una remota valle alpina non ancora snaturata dallo sviluppo turistico, rifiuta la disponibilità sessuale della collega Paulette, dopo averla corteggiata.

Aspirazioni ridicole
Se i nove protagonisti sono tutti alla ricerca sofferta di un riconoscimento esteriore che possa compiacere il loro ego, è raro tuttavia che la gratificazione inseguita assuma i tratti della conquista amorosa. Più spesso sono in campo aspirazioni minime, se non ridicole, come nel caso del cinquantenne Murray che, lasciata Londra per una anodina località dell’entroterra croato, non chiede altro se non essere salutato «come un loro pari» dai proprietari albanesi del fast food dove si rifornisce quasi quotidianamente di kebab.
Già da questi dettagli si capisce come la cifra principale di Tutto quello che è un uomo sia un’ironia screziata di amarezza, che vira verso il grottesco nei segmenti «giovanili», soprattutto in quello dove l’abulico ventenne Bernard, in vacanza da solo a Cipro, si lascia coinvolgere in un inatteso ménage à trois con due turiste inglesi obese (madre e figlia), ospiti del suo stesso albergo.

Oltre alla omogeneità stilistica di fondo, enfatizzata da una serie di rimandi quasi impercettibili, a riconnettere in una unità narrativa complessa le nove storie brevi è il motivo ricorrente dello spostamento che qui diventa sinonimo di smottamento emotivo, innesco di crisi esistenziali latenti. Invariabilmente tratteggiati in terza persona e al presente, i protagonisti di Tutto quello che è un uomo sono perennemente in viaggio, come se la condizione naturale del cittadino europeo consistesse ormai in un moto inesausto la cui frenesia appare direttamente proporzionale alla rimozione delle differenze e alla perdita di spaesamento indotta dal turismo di massa.

In una Europa asfittica
A ogni età si inerpicano sulle esili scalette degli aerei low budget, infilano chiavi nelle serrature di seconde case acquistate in luoghi bizzarri (come Argenta, la cittadina del Ferrarese in cui Tony sprofonda nella contemplazione della propria mortalità), tentano improbabili affari nell’Europa dell’est o, al contrario, accompagnano da Budapest la propria fidanzata a prostituirsi a Londra, restando poi esterrefatti dalla cupa determinazione con cui lei risulta disposta a vendersi. E, nel frattempo, non cessano di ripetere tra sé e sé interrogativi angoscianti («Che cosa ci faccio qui?», «Amiamo l’eterno, ma che cos’è eterno a questo mondo?») cui, ovviamente, non sono in grado di fornire una risposta.

Per Szalay – nato nel 1974 a Montreal, ma cresciuto nella capitale britannica e da qualche tempo stabilitosi in quello stesso paese, l’Ungheria, che suo padre aveva lasciato negli anni Sessanta – l’Europa (questo il titolo di lavoro del libro) è uno spazio asfittico che non può che amplificare ad libitum nevrosi, torti e ossessioni. Lo testimonia il destino di Aleksandr, l’oligarca russo che vorrebbe suicidarsi gettandosi in mare dal suo yacht, battezzato per l’appunto col nome di «Europa», ma non ce la fa, pur sentendosi ormai «un impostore nel mondo dei vivi». E lo dimostra anche la stessa struttura circolare del romanzo, che si rivela tuttavia soltanto alla fine, là dove il lettore scopre come Simon, il timido studente di Oxford al centro del primo racconto, sia in realtà nipote di Tony, il pensionato protagonista dell’ultimo brano.

Chiudendo su toni malinconici il suo libro lucido e ironico, Szalay sembra quasi invitarci a rileggerlo dall’inizio, per domandarci se nell’inevitabile passare del tempo e delle generazioni esista una parvenza di speranza: la possibilità di rimediare agli errori di chi ci ha preceduto o l’eventualità che qualcuno ripari i nostri.