Di Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato islamico, abbiamo una nuova foto. Risale al 2004, quando il futuro, auto-proclamato «Califfo» era conosciuto con il nome di Ibrahim Awwad al-Badri al-Samarrai. Barba lunga e ben curata, sguardo spaesato, capelli corti, occhiali dalla montatura metallica, tuta gialla: appare così nella foto che accompagna il dossier della sua reclusione nel carcere militare di Camp Bucca, nella provincia irachena di Bassora, nel 2004.

Parzialmente declassificato, il dossier è stato reso pubblico due giorni fa da alcuni media statunitensi. L’uomo che oggi guida uno dei gruppi terroristici più spietati del pianeta, nel 2004 è un detenuto come molti altri.

Religione, islam sunnita. Condizioni fisiche, buone. Occupazione, lavoro amministrativo (segretario). Luogo dell’arresto, Falluja. Peso, 165 libbre (74 kg circa). L’arresto avviene il 4 febbraio del 2004. Il rilascio, l’8 dicembre dello stesso anno. È questa la notizia che emerge dai documenti: al-Baghdadi è rimasto in carcere 9 mesi, molto meno di quanto raccontato spesso dai media, che intorno gli hanno costruito miti e storie spesso fasulle. Qualche notizia in più, e più fondata, si ottiene dalla lettura di Isis. Inside the Army of Terror, del ricercatore siriano Hassan Hassan e del giornalista statunitense Michael Weiss. La prima è che il futuro Califfo fu arrestato quasi per sbaglio, come racconta ai due autori Hisham al-Hishami, un esperto di Isis, già consulente del governo iracheno. Insieme a un amico, Abdul Wahed al-Semayyir, il «Califfo» era andato a trovare un conoscente a Falluja.

L’obiettivo è al-Semayyir, ma l’intelligence americana finisce per arrestare tutti e tre. All’epoca, al-Baghdadi ha maturato vaghe idee radicali, ma fino a poco tempo prima non era che un padre di famiglia, con moglie e una figlia. Sfoggia un dottorato e un master in studi religiosi conseguiti all’università di Scienze islamiche, nel quartiere Adhamiyah di Baghdad. Ai tempi dell’università pare fosse vicino ai Fratelli musulmani, in particolare a uno dei suoi leader locali, Mohammad Hardan, che aveva combattuto con i mujaheddin in Afghanistan. Al-Baghdadi è casa e moschea.

Gli capita di guidare la preghiera in una moschea di Tobchi, quartiere di Baghdad dove sciiti e sunniti convivono in pace. Evita i sermoni e il protagonismo. Quando gli Usa invadono l’Iraq, il suo sangue ancora non ribolle di odio. Nel 2003 dà vita a un gruppo islamista, Jaysh Ahl al-Sunnah wa al-Jamaah (l’esercito del popolo della comunità sunnita). Un anno dopo finisce nella vera palestra del jihad: Camp Bucca. All’inizio viene scambiato per un detenuto modello.

Gli amministratori del carcere credono di poterne sfruttare l’autorevolezza in ambito religioso per mediare i conflitti interni. Gli permettono di girare tra i vari blocchi. Ne approfitta per reclutare soldati, diffondere il suo verbo, ancora confuso. Nel 2004 viene rilasciato. È un uomo diverso: più convinto della sua missione e delle sue capacità sperimentate sugli altri detenuti e sulle guardie del carcere. Gli americani capiscono in ritardo che i militanti islamisti usano le prigioni gestite dagli Usa in Iraq come vere e proprie «università del jihad». I barbuti si spingono a inviare degli infiltrati per il reclutamento interno, come ammette agli autori di Isis il generale Doug Stone. Stone è l’uomo a cui nel 2007 viene assegnato il controllo sull’intero programma di detenzione e interrogatori in Iraq.

Camp Bucca è «un posto fuori controllo», riconosce il generale, che introduce un programma di de-radicalizzazione e di divisione dei vari blocchi. Tra i gruppi jihadisti, il più organizzato è quello dei «takfiri», i militanti convinti che il vero Islam sia solo quello da loro praticato, e che tutti gli altri meritino la scomunica. E la morte. Si stima che a Camp Bucca ne siano passati quasi 2.000. Molti di loro non lo sanno, ma il loro takfirismo proviene da un altro carcere. È il maggio del 1955. In Egitto lo scrittore e pedagogista Sayyd Qutb, padre dell’islamismo politico contemporaneo, sconta una condanna all’ergastolo, ridotta a 15 anni. È accusato di far parte dell’apparato segreto dei Fratelli musulmani, che il 26 ottobre 1954 avevano tentato di far fuori il presidente Nasser. Sayyd Qutb sta male, ha due attacchi di cuore. Un’emorragia polmonare.

Viene trasferito nell’ospedale del carcere. Alcuni Fratelli musulmani organizzano uno sciopero. Si rifiutano di uscire dalle celle. Vengono trucidati: 23 morti, 46 feriti. Sayyd Qutb vede i corpi sfigurati. Mettendosi al servizio di Nasser e di uno Stato secolarizzato, pensa Qutb, i carcerieri hanno negato Dio. È la scomunica, il takfir. Lo stesso che molti anni dopo avrebbe alimentato le brutali gesta del «Califfo» al-Baghdadi.