Sono stati impiccati ieri mattina in una prigione del Cairo: i nove prigionieri uccisi ieri dal regime egiziano sono solo gli ultimi di una campagna di esecuzioni che ha raggiunto un nuovo apice nelle ultime settimane. A guardarne in foto i volti giovani e sorridenti, lo zainetto in spalla, Ahmed Wahdan, Abul Qassem Youssef, Ahmed Gamal Hegazy, Mahmoud al-Ahmady, Abu Bakr Abdel Megid, Abdel Rahman Soliman Kahwash, Ahmed al-Degwy, Ahmed Mahrous e Islam Mekkawy non sembrano affatto gli spietati esecutori di un omicidio.

Sono stati accusati, sulla base solo delle loro confessioni sotto tortura, di aver pianificato ed eseguito l’assassinio dell’ex procuratore generale Hisham Barakat, ucciso nel giugno 2015 da un’autobomba. Alle famiglie, dice il loro legale, è stato comunicato la notte precedente ma non è stato dato il permesso (un diritto sancito) di far loro visita: venite a prendervi i corpi in obitorio, il messaggio.

Dubbi sulla loro colpevolezza erano stati sollevati su Facebook dalla figlia dello stesso Barakat, Marwa, la notte prima delle impiccagioni: «Questi giovani non sono i killer di mio padre, moriranno ingiustamente». Un post poi sostituito da uno di tutt’altro tenore con il fratello di Marwa che si affrettava a parlare di un hacker infiltrato nel suo profilo Fb.

Qualunque sia l’opinione della famiglia dell’ex procuratore, restano i corpi dei nove giovani. Che si aggiungono a quelli dei sei giustiziati nelle ultime due settimane, denuncia il gruppo contro la pena di morte Reprieve: tre accusati dell’omicidio di un funzionario di polizia e tre per quello del figlio di un giudice, entrambi nel settembre 2013, un mese dopo il massacro di Rabaa (un migliaio di sostenitori del deposto presidente Morsi uccisi dalle forze armate egiziane).

Tutte e tre le ultime esecuzioni sono avvenute a pochi giorni da attacchi islamisti in Sinai contro l’esercito, a sancire quella che sembra un osso da lanciare all’opinione pubblica.

«Le esecuzioni sono salite alle stelle – dice la direttrice di Reprieve, Maya Foa – tra abusi diffusi, violazioni giudiziarie, torture, confessioni false e l’uso ripetuto di processi di massa». In sintesi il sistema giudiziario plasmato dall’ex generale al-Sisi dopo il golpe del luglio 2013. A condannare le ultime esecuzioni è stata Amnesty, il giorno prima, sperando di fermare il boia: «Giustiziare prigionieri o condannarli sulla base di confessioni estratte con la tortura non è giustizia», il commento di Najia Bounaim, direttrice di Ai per il Nord Africa.

Dal luglio 2013 le corti militari e civili egiziane hanno condannato a morte 1.451 persone, per lo più membri (o sospetti tali) dei Fratelli musulmani, alla fine di processi di massa che violano i principi standard di equità e spesso sulla base di confessioni estorte e di detenzioni cautelari lunghe anni. Di queste, secondo Reprieve, ne sono state eseguite 83 tra gennaio 2014 e febbraio 2018. Più alti i numeri forniti dal database della Cornell Law School, costruito sulla base dei report di organizzazioni per i diritti umani: dal 2013 sono stati uccisi almeno 143 condannati a morte; tra il 2007 e il 2012 se ne contarono 12.

Non solo pena di morte: la scorsa settimana delle 156 persone condannate da una corte militare 26 erano minori al tempo dell’arresto, nel 2014. Dopo quasi cinque anni di detenzione cautelare, a ragazzini che all’epoca avevano tra 14 e 17 anni sono state comminate pene dai tre ai cinque anni di prigione, in violazione della legge egiziana che proibisce l’arresto sotto i 15 anni di età e impone il giudizio da parte di una corte minorile. Dal luglio 2013 sono stati detenuti in Egitto quasi 3.200 minori.