Sono passati nove anni dal grande naufragio di Lampedusa che per un po’ di tempo segnò le coscienze in Italia e in Europa. Il 3 ottobre 2013 a mezzo miglio dalle coste si ribaltò un barcone carico di migranti: 368 morti, 20 dispersi, 155 morti. I motori si erano fermati e il capitano incendiò un fazzoletto per attirare l’attenzione dei pescherecci, scatenando il panico a bordo. Otto giorni dopo un’altra strage: il «naufragio dei bambini», 200 morti tra cui 60 minori. Da quelle due tragedie nacque l’operazione Mare Nostrum, lanciata dal governo Letta e cancellata un anno dopo da Renzi. Quando terminò la missione italiana arrivarono le navi delle Ong.

Ieri sul lembo di terra più meridionale d’Italia si sono ritrovati migliaia di studenti per la commemorazione organizzata, come sempre, dal Comitato 3 Ottobre. «Il salvataggio di vite umane deve essere la priorità», ha detto Tareke Bhrane, tra i promotori. In attesa del governo più a destra della storia repubblicana, alla «Giornata della memoria e dell’accoglienza» si sono riviste le istituzioni. Vi ha partecipato il presidente della Camera Roberto Fico, che ha chiesto maggiore coinvolgimento europeo nella gestione dei flussi da sud. Intanto a Strasburgo la presidente del parlamento Ue Roberta Metsola apriva la settimana plenaria ricordando che «nove anni fa abbiamo promesso un cambiamento e dobbiamo fare passi avanti sulle migrazioni».

Oltre le parole di circostanza, però, restano i numeri. Dal 3 ottobre 2013 a oggi, dice l’Oim, nel Mediterraneo sono morti oltre 25mila migranti. Gli Stati costieri e l’Ue si sono progressivamente disinteressati del problema. Arretrando gli assetti istituzionali, formando e finanziando la sedicente «guardia costiera» libica, nascondendo le informazioni su ciò che accade quotidianamente, ostacolando le Ong. 10 giorni fa sono ricominciati i fermi amministrativi delle navi umanitarie: a Reggio Calabria è stata bloccata la Sea-Watch 3 con l’accusa di aver salvato troppe persone.