Nei cento chilometri per raggiungere Pokrov da Mosca c’è un bel pezzo di Russia concreta e marziale, di periferia industriale, di campagna elettrificata tenuta in piedi sempre di più a forza di pensioni e di sussidi e di interventi dello stato. E in quella cittadina di ventimila abitanti a un paio di ore d’auto dalla capitale la giudice Margarita Kotova ha cancellato ieri pomeriggio Alexei Navalny dalla scena politica con una condanna a nove anni di carcere duro per appropriazione indebita e oltraggio alla corte. «È stata una frode su vasta scala», ha detto Kotova. Si riferiva ai quattro milioni di euro che secondo l’accusa Navalny avrebbe sottratto al suo stesso partito, un partito che le autorità avevano peraltro già dichiarato fuorilegge.

IL PROCESSO si è tenuto nella colonia penale numero due, in cui Navalny si trova ormai da un anno. In aula aveva la tuta nera dei detenuti, la testa rasata e il viso scavato. Al suo fianco due legali, che la polizia ha trattenuto brevemente dopo la lettura del verdetto. L’udienza i giornalisti l’hanno seguita in una sala d’aspetto su un televisore appeso a una parete accanto al ritratto del presidente, Vladimir Putin. La decisione era ampiamente attesa dai sostenitori di Navalny, visto che la procura aveva domandato tredici anni, e vista soprattutto l’estrema attenzione che i tribunali russi hanno dedicato negli ultimi anni alle vicende di quello che si può considerare il più popolare e più radicale oppositore del Cremlino. «Putin ha paura della verità», ha detto lui in serata, «per questo combattere la censura resta il nostro primo obiettivo».

LA SETTIMANA SCORSA, nell’ultimo intervento, aveva citato Marina Ovsyannikova, la giornalista del primo canale che è comparsa in diretta sulla tv pubblica con un cartello contro la guerra e contro la propaganda. «Non potete rinchiudere tutti, non potete spaventare me e quelli come me: la Russia è enorme ed è piena di persone che non tradiranno il loro futuro e quello dei loro figli». L’intera carriera politica di Navalny è segnata da iniziative controverse, da problemi legali e da pesanti conseguenze sulla sua stessa salute. La prima condanna l’aveva ricevuta nel 2013. Lo scorso febbraio è stato chiamato a scontare in carcere una pena di due anni e otto mesi per avere lasciato il paese quando era in regime di libertà condizionata. Tutti ricordano le circostanze: era stato trasferito in coma in Germania per ricevere cure dopo l’avvelenamento in un albergo nella città di Omsk, in Siberia. Il reato per il quale lo hanno punito ieri è identico a quelli che lui ha raccontato per anni nella cerchia del Cremlino. Dovrebbe rimanere in cella sino al 2032, a meno di clamorosi stravolgimenti nell’ordine politico russo.

LA SENTENZA, e lo dimostra il riferimento a Ovsyannikova, incrocia un momento delicato per gli equilibri sociali. La guerra in Ucraina sta diventando più lunga e più pericolosa di quanto i più scettici nella cerchia del Cremlino potessero immaginare. L’ultima volta il ministero della Difesa ha fornito dati sui soldati morti all’inizio del mese. Da allora nessuna nuova comunicazione. Lunedì sul sito internet del quotidiano Pravda è comparso per qualche minuto un articolo secondo il quale i caduti in combattimento sarebbero quasi diecimila e i feriti sedicimila. È un numero elevato. Pari alle perdite che i russi hanno sofferto nelle due guerre combattute in Cecenia prima da Boris Eltsin, negli anni Novanta, e poi da Putin nel decennio successivo.

GLI SFORZI per tenere sotto controllo l’opinione pubblica sono enormi. La Duma e gli apparati della giustizia stanno assumendo ogni contromisura per rastrellare le informazioni. Una legge punisce i resoconti sulle operazioni in Ucraina diversi da quelli ufficiali con pene sino a quindici anni. Sulla base di questa norma ieri è stata aperta un’inchiesta contro l’ex deputato Alexander Nevzorov, 63 anni, che aveva parlato dell’attacco all’ospedale di Mariupol. Un altro provvedimento impedisce ora di mettere in discussione l’operato del ministero degli Esteri. Altri quindici anni di carcere. In mezzo il tribunale di Mosca ha inserito due social network come Facebook e Instagram nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, al pari dei talebani, dello stato islamico, oppure del gruppo di estrema destra ucraino Pravy Sektor. Non è un caso che il pezzo pubblicato lunedì da Pravda sia improvvisamente scomparso dalla rete. Il giornale si è difeso denunciando un «attacco hacker».