Nessuna parola, tra aggettivi e sostantivi, ricorre con più frequenza nei titoli di Arbasino. La serie diceva, finora: Fratelli d’Italia, Fantasmi italiani, Paesaggi italiani con zombi. Vuol dire che lo scrittore ha visto il mondo, ma il suo paesaggio è l’Italia, il «paese senza» dove ha vissuto l’Anonimo lombardo in tutte le stagioni della sua vita. Ora alla suite si aggiunge Ritratti italiani (Adelphi «Biblioteca», pp. 552, euro 28,00; in copertina «Alberto Arbasino ritratto da Marisa Rastellini», prologo fotografico al libro: lo scrittore in altra sua età, in bianco e nero, forse nei felici Sixties, mentre legge adagiato sul divano). I ritratti sono novantatre, da Gianni Agnelli a Federico Zeri, in ordine alfabetico, e il libro è dunque una galleria rappresentativa dell’intero Novecento: il Novecento di Arbasino e il suo «paese con». Stilati di fronte o di lato, si direbbe che la fonte formale di questi ritratti sia rintracciabile in alcuni esemplari del buon vecchio giornalismo d’autore e soprattutto del new journalism (si vedano, sintomatici, i nomi di Irene Brin e di Camilla Cederna), nei modelli alti di certa letteratura (alla quale però la prosa sismica di Arbasino somiglia ben poco) e, infine e forse maggiore, in quel brano della pittura lombarda che, insegnava Longhi, sta nel capitolo «dal Moroni al Ceruti» e, al modo della scuola maggiore di Longhi, nel «Fra Galgario, di lato» di Gianni Testori.

Il libro più somigliante a Ritratti è forse Sessanta posizioni, utilizzato per precedenti risistemazioni (per esempio America amore) nel continuo updating che si conosce (non solo riscrittura stilistica o linguistica, ma di pensiero e di memoria), smembrato e congedato, però persistentemente cult. Nel confronto, Ritratti mostra come, nella mutazione di clima culturale, siano diversi disposizione e sentimento delle cose: ciò che era in presa diretta è ora materia ancora viva però a freddo, base per una autobiografia intellettuale per interposti fatti e persone, al modo di Marescialle e libertini, sezione dei mémoires in divenire. I pezzi non recano date. Non si sa quando siano avvenuti gli incontri né quando siano stati scritti i capitoli: incontriamo un giovane Gianni Morandi e molti agiscono da vivi, come più non sono. Tale rapporto con le date e la cronologia è tratto si direbbe innato dell’autore come coltivatore di memorie e utilizzatore di suoi archivi: comporre a strati successivi, con aggiunte e ritorni, e ritocchi. La musa è l’occasione, e compito del poeta è che l’occasione divenga persistenza e che trovi significato in un campo di relazioni. Ma sappiamo che il libro, nel suo insieme, avvolto dalla copertina carta da zucchero, reca la data di oggi.

Perciò Ritratti italiani è lo stato odierno della memoria di Arbasino: memoria, non va nemmeno aggiunto, privata solo per accidente, e resa pubblica in quanto memoria di epoche e contesti, di climi culturali e di colori del tempo andato. Questo libro di memorie che si affollano e di qua e di là, tirando a destra e a manca e sopra e sotto chi legge, prende stabilità come galleria di ritratti dal nome posto in testa a ogni singolo capitolo: indicatore di direzione, ogni nome funziona prima come segnaletica, poi diventa un addensante, un esaltatore di sapidità, un filtro che trattiene o rilascia; nulla evapora, ma tutto si condensa, e ben s’impingua. Alcuni degli estremi tra i quali oscilla l’indicatore: contesto e aneddoto, antropologia e cronaca, storia e gossip. L’ago del sismografo segna il minimo colpo, ma quasi prima che ne dia rendiconto ci si accorge che il sismografo e il territorio in movimento sono la stessa cosa. Perciò, per esempio, gioco accattivante, ma facile troppo, sarebbe una ricognizione o una semplice infilzatura di aneddoti; non sarebbe errata a scorgere il tono del tomo, però sarebbe largamente insufficiente a delinearne la portata. Invece, siccome Arbasino colloca l’uno accanto all’altro elementi diversi – il suo procedimento è simile alla diffrazione della luce, che si parcellizza ma che è unica – non di rado si scorgono luminescenze accanto a quella che viene annunciata come la via principale. Per esempio, nelle mirabili pagine su Longhi, c’è una segnalazione su uno dei modi di leggere Croce; e nelle stesse pagine ci sono osservazioni su Contini proprio non trascurabili e che magari nella memoria del lettore correranno anche leggendo il capitolo su Contini, dove non ci sono. Il ritratto di Torino che prepara un incontro con Bobbio lascia cadere un’osservazione sulla sintassi di Hemingway e così via; e anche microscopicamente si hanno infinite conferme di accostamenti di piani stilisticamente e concettualmente lontani, come nella fisicità deplorevole di certi antichi siciliani nel capitolo su Fulco Verdura. Questi accostamenti inattesi e di efficacia immediata sono, certo, anche una delle ricette del comico. Perciò, altro avviso ai naviganti in mare aperto.

Si rischia sempre di ridurre Arbasino a ottimo fabbro di battute, ricordando alcune sue peraltro memorabili sintesi, delle quali Ritratti è una miniera; si tratta di un rischio condiviso con altri moralisti di vena all’apparenza comica, dall’immenso Belli a Flaiano: pericolo maggiore nell’uso giornalistico. Non è detto che tale libera estrapolazione non abbia una sua legittimità, ma la vena ha sangue ora malinconioso ora bilioso, per quanto sublimato e talvolta improvvisamente euforico; sicché il discorso così spezzettato, buono come il prezzemolo a ogni minestra, finisce per negare il tessuto in cui quelle sintesi prendono corpo e forma, le assolutizza e le riduce a meno di quel che sono, per quanto l’effetto immediato possa restare fulminante. La battuta è l’antiinfiammatorio, il vicolo per la fuga immediata; al termine si spalancano autostrade con varie corsie per ogni senso di marcia, nelle quali ci si azzarda a itinerari contromano; e rotatorie, e incroci, cunette, rare assai aree di sosta e parcheggi mai: la scrittura di Arbasino si muove sempre, ha bisogno del movimento che è la sua forma propria. Che si trova, si solidifica e poi riparte senza sonno.

Né, in coda, si vuol mancare di rilevare come, grande letteratura, Ritratti sia anche un libro di educazione civica e politica, come lo è ogni osservatorio di costumi. Non si rischiasse di essere fraintesi, lo si dichiarerebbe dominato da un tratto pedagogico, impassibilmente sostenuto, anche nei suoi rivoli più pop e più camp, da intensa pietà e trattenuta commozione verso le cose che svaniscono, da ricordare la mano del curatore di erbari mentre impedisce, con pudore e amore, che le piante diventino povera polvere. Infine, la valutazione di Ritratti italiani si vuole toglierla da dentro il libro stesso, sostituendo al nome del ritrattato quello del ritrattista: «Si fa presto, a dire comunemente: il piacere del testo. Ma quando il testo è Arbasino, i piaceri sono numerosi, e deliziosi. Il diletto dell’erudizione smisurata, proliferante, intersecante, e giustamente bizzarra, con tutte le sue eccentricità giuste – e qualcuna in più. Ancora la voluttà di una sovrana squisita leggerezza, che tutto o quasi può permettersi, perché agisce talmente (e totalmente) dall’alto. Sono doti sempre più insolite in una cultura come la nostra che pure ha avuto personaggi di personalità e charme incantevoli: R. Longhi, M. Praz, C. Brandi, G. Contini, G. Macchia. […]. Ma, finalmente, il testo. Arbasino même, in person, in concert, live. […]Ghiotto, rigoglioso. Succulento e dry». Un po’ Stravinsky un po’ Miles Davis.