Ágnes Heller è morta mentre nuotava. Aveva novant’anni e con lei se ne va un pezzo di storia del Novecento e del primo ventennio del nuovo secolo: prima i nazisti, poi i comunisti staliniani, da ultimo i sovranisti l’hanno rispettivamente internata, perseguitata e minacciata senza che mai il suo sorriso e la sua immensa forza vitale la abbandonassero.

Gli ebrei del suo Paese vennero risparmiati fino alla metà del 1944, ma proprio quando i nazisti stavano perdendo la guerra, deportarono 50mila ebrei ungheresi e Ágnes venne internata, quindicenne, nel ghetto. L’esempio di suo padre, amatissimo e ateo, che rifiutò di convertirsi al cristianesimo come avevano fatto molti altri ebrei per salvare la pelle, risultò fondamentale per lei poiché lui disse: «Non si abbandona mai la nave mentre affonda», fu deportato ad Auschwitz e lì venne ucciso. Ágnes preferì sempre il padre capace di vivere una vita piena suonando il piano, amando la filosofia, la poesia e l’arte e godendosi la vita benché guadagnasse pochissimo, alla austera madre.

Ágnes fu l’allieva prediletta di György Lukács, e il sodalizio con lui durò dal 1947 fino al 1971, l’anno della sua morte. Quando lo conobbe studiava fisica ma le bastò ascoltare una sua conferenza per votarsi alla filosofia, anche se mantenne sempre la sua autonomia intellettuale e polemizzò apertamente con lui tutte le volte in cui lo ritenesse necessario. Dal 1953 al 1956 fu la sua assistente all’università, ma quando lui fu deportato lei fu cacciata dall’ateneo. Lukács era profondamente morale e talvolta la sua visione divergeva da quella del partito, ma quando cadde in disgrazia tutti lo evitavano per paura di avere guai. Ágnes e il suo futuro primo marito però non lo abbandonarono. Lukács, che aveva scritto il libro fondamentale Teoria del romanzo, rafforzò l’amore di Ágnes per la letteratura, e in effetti in molte delle sue opere gli autori letterari vivificano il suo pensiero filosofico.

Tutta la «Scuola di Budapest», ispirata a Lukács, ha cercato di dare vita a un rinascimento del marxismo contestando la mummificazione del pensiero di Marx che, istituzionalizzato come una chiesa, perdeva così le sue linfe migliori.

Non a caso il Sessantotto fu salutato con grandi speranze ma, dopo l’invasione della Cecoslovacchia, la frattura con il partito era ormai senza ritorno. Da quel punto nasce la rilettura che Ágnes effettua di Marx superando il paradigma della produzione e sceverando i bisogni dagli interessi. Nascono libri come Sociologia della vita quotidiana e soprattutto La teoria dei bisogni in Marx, che in Italia fu accolto con entusiasmo.
In seguito, nel libro Oltre la giustizia, il pensiero di Ágnes ha una torsione decisiva perché riflette sulla indesiderabilità di un mondo perfetto, in cui tutti i bisogni siano soddisfatti: si tratterebbe della realizzazione di un’utopia che, come quella descritta dal Moro, avrebbe l’immagine di un incubo poiché verrebbe meno la libertà di pensare in modo differente rispetto a quanto è stato decretato «perfetto». Ágnes avrebbe ripreso questa tesi nel libro che ha scritto poi con me Il vento e il vortice. Utopie, distopie, storia e limiti dell’immaginazione, articolandola con ancor maggiore veemenza.

La storia più recente di Ágnes è nota ai più: divorzia da Marx quando scrive Teoria dei sentimenti, si trasferisce in Australia quando in Ungheria l’aria era diventata irrespirabile, insegna all’università di Melbourne, poi alla New School for Social Research di New York, fa amicizia con Eric Hobsbawm, Jacques Derrida, Cornelius Castoriadis, ma collabora anche con la femminista Judith Butler, benché da liberal qual è diventata si trovi ormai a disagio nella frequentazione del radicalismo. Non rinnega le rivoluzioni che, seppure vengano necessariamente tradite, modificano lo status quo ed è grazie a esse che il mondo può essere migliore, garantire maggiori diritti, umanizzare la vita – sempre senza cementificarla!

Fino al suo ultimo giorno di vita, è stata la più incalzante oppositrice di Orbán, senza curarsi delle minacce di morte puntualmente ricevute: in fondo, aveva attraversato passaggi molto più stretti.
Quando era a New York, Ágnes ogni pomeriggio andava al Metropolitan Museum: non si perdeva una mostra o un concerto, e non mancava di bere una coppa di champagne. Voglio ricordarla così, intenta a spiegarmi le opere della Biennale di Venezia che non capisco, a polemizzare sul mio pessimismo, a divorare costolette di maiale e bere Martini: perché per lei una filosofia che non sia incarnata nei nostri gesti quotidiani è pura, inutile, sciocca astrazione.