Il Fid Marseille che si è da poco chiuso è uno di quei festival «mutanti», negli anni cioè rispetto alla definizione di sé – Festival internazionale del documentario – ha voluto a ogni edizione interrogare la propria forma di partenza, «il documentario», per proporne declinazioni sempre più ibride.
Difficile definire un «documentario» il film vincitore nel concorso internazionale (giuria guidata da Lav Diaz), Haruhara san’s Recorder del regista giapponese Kiyoshi Sugita, premiato anche per la migliore attrice, la magnifica Chika Araki, cosa che dovrebbe appunto subito rimandare al terreno della «finzione»; la scommessa del festival però è esattamente quella di contaminare, muoversi lungo i bordi, lasciare da parte il genere per cercare in una fluidità del racconto cinematografico il senso delle immagini e della loro relazione col mondo.

Così questa strana storia di piccoli gesti quotidiani senza una vera «trama» – e con molte citazioni cinefile a cominciare dalle atmosfere antonioniane – che esplora le emozioni, i piaceri, e il gesto di filmare (e di essere filmati) si fa terreno di sperimentazione del tempo, degli spazi, degli sguardi, di un’epifania impalpabile con cui da sempre il cinema desidera uno scambio.

I FILM dell’edizione 2021 si muovono tra i detriti del mondo, trasformando il vissuto pandemico in movimento cinematografico (House of Love di Pierre Creton), le esperienze personali in sentimenti collettivi – Penelope mon amour di Claire Doyon (premio Georges De Beauregard nel concorso francese), in cui la regista condivide la sua vita con la figlia autistica e le battaglia contro la violenza delle società e della medicina.

L’ambiguità di una narrazione alla prima persona nella sua messinscena – come nel film vincitore del concorso francese (presidente della giuria Lech Kowalski) , Appuyé au mur di Jacques Meuillerat, dove il protagonista Bernard, interpretato dal regista, ricorda davanti a un vecchio registratore a cassetta le sue esperienze di bambino abusato.

Il senso di verità è affidato al confronto delle parole, e delle immagini che ne scartano il dolore, e ne assecondano la follia, che dialogano coi frammenti dei vecchi film del regista e che nascono da un pretesto banale: perché vuoi ricordare? chiede la madre a Bernard. Per soldi, perché ne faranno una serie tv.

IL TITOLO, Nous disons révolution, potrebbe sembrare quasi un manifesto (dell’intero festival?) anche se per questi due cineasti tutto quanto può risuonare dogmatico si pone all’esatto opposto della loro ricerca e della loro relazione con il fare-cinema, della quali qui spingono all’estremo potenzialità e desiderio. Il nuovo film di Elisabeth Perceval e Nicolas Klotz (che sbaglio lasciarlo fuori dal palmarès) è stata una delle visioni più potenti del festival, un’esperienza sensoriale che a partire dal corpo attraversa la storia e le sue narrazioni; schiavismo, colonialismo, razzismo: come demolire i codici dominanti, come rovesciarne la rappresentazione? E in che modo ritrovare un «quadro» – inquadratura – che sfuma la centralità dell’uomo per rimettere in primo piano l’universo? Il nostro tempo coi suoi interrogativi scorre in questo magnifico film, che sembra ritrovare i luoghi dei loro altri lavori – pensiamo a L’Héroique Land (2017) o a Mata Atlantica – in un flusso che viaggia sul pianeta, tra Barcellona e il Brasile, utilizzando un archivio personale dei due registri come memoria e insieme attualità.

Lo schiavo deve morire col padrone ci dicono le prime inquadrature. E anche il cane. Se lo schiavo fugge lo cercano, non ha diritto alla sua vita, non può rimanere sulla terra. Intanto un regista fa un casting per un film: c’è troppa gente, si inquieta l’assistente, un uomo ricorda la sua storia di migrante tra l’Africa e l’Europa, i più giovani lo mettono a tacere.

A BARCELLONA un cane su tre zampe – commuovente nella sua dolcezza – chiede allo schiavo che insegue di portarlo via con sé. In Brasile il fiume della danza colma le strade, una corrente straordinaria di corpi in movimento che catturano gli occhi, quasi ipnotizzano, che conducono altrove, in una immagine di animali senza uomini, nella parola che si fa grido, che nettamente rivendica una resistenza al capitalismo globale, alla devastazione della terra, al razzismo, alla repressione. Noi diciamo rivoluzione che è una dichiarazione poetica e politica, in cui si interroga lo sguardo dell’artista e il suo punto di vista rispetto al proprio tempo e alla realtà.

FARE CINEMA politico è una scelta che appartiene a Klotz e Perceval e che inizia sempre, in ognuno dei loro lavori, dalla a forma con cui raccontare. è l’immaginario che mettono in discussione passato e presente, il modo in cui le figure umane e animali assumono i contorni di un’iconografia. È questa la rivoluzione?

Respiro, battito di una parola che assume dentro di sé la volontà di una diversa traiettoria nella storia, che vuole liberare altre voci, altri «io», che è battaglia, pensiero, movimento, che sposta l’io dell’occidente nei conflitti. Che corre lungo i bordi, si fa sogno, sensualità, condivisione di un spazio comune. Che accetta il rischio e si mette in gioco – presenza anche performativa quella di Elisabeth Perceval. E in questa dimensione collettiva dichiarata nei diversi capitoli che lo organizzano – come un’improvvisazione musicale scandita dalla composizione splendida di Ulysse Klotz– il film – prodotto dal Centre Pompidou dove il prossimo dicembre ci sarà una retrospettiva completa dei due artisti – fa vivere la sua bruciante rivoluzione.